Trentino mese, maggio 2010


Quando la valigia diventa scrigno

di Alberto Folgheraiter

Nel tempo delle migrazioni senza tempo, nel tempio di plastica delle Samsonite e delle Luois Vuitton, irrompe una valigia di cartone.
A dispetto del modesto materiale pressato che conteneva poveri cenci e lacerti di miseria, per il lettore del terzo millennio quella valigia di Carmine Abate diventa uno scrigno. Restituisce immagini e gusto, afrori e sapori di un’Italia contadina di mezzo secolo fa, di un’Italia migrante verso il Nord come le rondini. Destinazione Germania, dove la terra era grassa, nascondeva il carbone, prometteva un riscatto più prezioso dell’oro. Soltanto chi ha visto e vissuto nel proprio cervello, chi ha lasciato filamenti di anima tra i rovi e i fichi d’india delle scogliere calabre, può dire e descrivere sentimenti e commozioni. Perché è vita vissuta per davvero.
Un padre emigrato nel profondo nord della Germania, ad Amburgo; una moglie (e madre) che lo segue; un figlio (l’autore) che studia e s’impegna per non finire come suo padre in fonderia ma che si paga gli studi migrando d’estate nelle fabbriche sulle rive dell’Elba.
E Carmine Abate, che comincia a crescere e a collezionare arrivi e partenze, addii e approdi, si fa esule di se stesso. Lascia la Calabria per raggiungere il genitore ad Amburgo, per guadagnarsi la “borsa di studio” d’estate, per finire al Nord nelle valli alpine subito dopo la laurea in lettere a insegnare l’italiano a chi mangia e parla il dialetto della Valtellina. E nuovamente in Germania a insegnare la lingua di Dante per i figli degli emigrati. L’ultimo approdo, in ordine di tempo anche se non definitivo, nella “terra di mezzo”, a Besenello. Ovvero: a metà strada fra la Calabria e la Germania, fra Trento e Rovereto dove ha trovato la sintesi di mille identità. Carmine Abate, nell’ultimo romanzo (“Vivere per addizione e altri viaggi”, Oscar Mondadori) recupera “la ricchezza che porta con sé l’esperienza migratoria”. Perché, scrive “vivere in più culture, parlare più lingue, acquisire un nuovo sguardo, guardare la vita con altri occhi non può essere che una ricchezza”.
Del resto, la vita per addizioni l’ha portato a essere uno strano personaggio. Ancora dal romanzo-autobiografia: “Se per i tedeschi continuavo a essere uno straniero; per gli altri stranieri, un italiano; per gli italiani, un meridionale o terrone; per i meridionali, un calabrese; per i calabresi, un albanese o “ghiegghiu”, come loro chiamano gli arbëreshë; per gli arbëreshë, un germanese o trentino; per i germanesi e i trentini, uno sradicato, io per me ero semplicemente io, una sintesi di tutte quelle definizioni, una persona che viveva in più culture e con più lingue, per nulla sradicato, anzi con più radici, anche se le più giovani non erano ancora affondate nel terreno ma volanti nell’aria”.
Intanto, nella sua Calabria, gli asili vuotati dal prosciugamento demografico diventavano asilo di nuovi immigrati perché se i poveri non sempre sono solidali con i propri simili chi ha subito lo sradicamento sa “quanto sa di sale lo pane altrui”.
L’autore de “Il ballo tondo” (1991), “La moto di Scanderberg” (1999), di “tra due mari (2002), “La festa del ritorno” (2004), “il mosaico del tempo grande” (2006), “Gli anni veloci” (2008) con quest’ultima raccolta di racconti chiude un cerchio e ne apre subito altri. Fissa, temporaneamente, l’orizzonte del suo sguardo, mette radici nel Trentino dell’immigrazione e fissa lo sguardo su un castello. Che è quello di Beseno (per il momento) ma potrebbe essere altro. Quelle mura illuminate nella notte, quasi sospese nel buio disegnato dal profilo delle montagne, sanno di sogno e di miraggio. E se nessuna carovana ha raggiunto il proprio miraggio, solo i miraggi hanno mosso le carovane. Del resto è ciò che ha spinto Carmine Abate a mettere il vestito bello, ad affondare la mente nello studio, a scrivere e descrivere il proprio “vivere per addizione”.
Nel chiostro della vita, tra il salmodiare dei monaci della penna, lo scrittore trentino di origini calabro-albanesi è (nomen omen) proprio un abate.

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