l’Adige, 19
marzo 2010
"Vivere per addizione".
Storie di mescolanza
di Giuseppe Colangelo
Da quando undici anni fa, con La moto di Scanderbeg,
Carmine Abate è salito stabilmente alla ribalta letteraria nazionale, i
critici più accorti hanno via via sottolineato – in maniera diversa
nella forma ma convergente nella sostanza – che la sua nativa vocazione
alla scrittura è sorretta da un nucleo di esperienze di ampio respiro e
da una propensione civile che danno necessità ed energia al suo modo di
fare letteratura. Un riconoscimento non da poco, visto che spesso è
accompagnato da allusioni non proprio positive nei confronti di certa
narrativa contemporanea sguazzante dentro minime vicende private,
intrecci costruiti a tavolino, calligrafismi cerebrali.
In realtà Abate ha avuto fin dall’esordio idee molto precise sulla
direzione di marcia da seguire, come dimostra inequivocabilmente questa
aurorale dichiarazione di poetica: <<Impegno e affabulazione, impegno e
belle storie: in una bella storia devono entrare le tematiche sociali e
non le masturbazioni mentali o i problemi psicologici che puoi avere
come singolo ma che non interessano a nessuno. Io non riesco a scrivere
storie che non siano ancorate nella memoria collettiva. È come se
dovessi parlare per chi non ha voce>>. Sono parole caratterizzate da una
scelta di campo (ideologica ed estetica ad un tempo) molto forte. Un
assunto di grande spessore cui egli ha saputo mantenere fede con
assoluta coerenza. Romanzo dopo romanzo, racconto dopo racconto,
infatti, ha affrontato temi di larga portata sociale (l’emigrazione,
l’impatto della modernità sul mondo contadino, l’incontro – scontro tra
culture diverse) incardinandoli in vicende appassionanti e portandoli a
un livello di altissima resa artistica. Ma l’altro suo tratto
distintivo, anche questo ben rilevato dalla critica più attenta, è la
qualità della scrittura. Una scrittura capace di far rivivere al lettore
emozioni intense e – piena com’è di estro, di forza espressiva, di
originalità, di sorprese – di portarlo fuori dallo smorto grigiore della
comunicazione quotidiana ma anche dalle lingue di plastica di tanta
giovane narrativa di oggi.
Con Vivere per addizione e altri viaggi, il nuovo libro appena
pubblicato da Mondadori (Piccola Biblioteca Oscar, pp.158, € 9), Carmine
Abate ci dà un’ulteriore saggio di queste sue singolari doti. Sono
diciotto racconti, brevi ma molto densi, che pur scritti in momenti
diversi, tra il 1993 e il 2009, si presentano come capitoli di un
romanzo unitario il cui significato complessivo è riassunto, come meglio
non si potrebbe, dal titolo della raccolta. Tutte le storie qui narrate,
infatti, si muovono, con gradazioni diverse e crescenti, verso lo stesso
traguardo: vivere per addizione. Che nell’accezione abatiana significa
aprirsi agli altri per conoscere e farsi conoscere; imparare a guardare
con occhi positivi l’incontro e la mescolanza delle culture; considerare
l’identità in termini dinamici, come un elemento in continuo divenire,
un processo di crescita e non qualcosa di dato una volta per tutte o
piantato come radice esclusiva nel sangue e nel suolo. Vivere, insomma,
includendo umanità, aggiungendo relazioni, sommando esperienze,
accogliendo cambiamenti, allargando gli orizzonti. Tutto questo, qui,
diventa pura sostanza narrativa, traducendosi in storie coinvolgenti e
incarnandosi in personaggi che si incidono nella memoria. Così, ad
esempio, il cuoco d’ Arbëria, protagonista dell’omonimo racconto (uno
dei vertici di questo libro), custode riconosciuto di saperi e sapori
della cucina tradizionale arbëreshe che, nel descrivere la propria
condizione di emigrato, non esita a confessare la sua personale
disponibilità alle “addizioni”: <<Comunque io per me mi sono adeguato.
Tanto per dire: mangio anche Würstel con peperoncino, sono diventato
patataro più dei tedeschi, Kartoffelfresser, come dicono loro, patate
cotte, condite a modo nostro, con aceto, olio, peperoncino tritato,
aglio e bevo birra a volontà. Però questo non significa intedescarsi,
significa essere un uomo con un palato diviso, o forse con due palati,
insomma non so manco io come esprimermi. Di sicuro non ho rimpianti,
questo no, se non quello che abbiamo noi anziani, di non essere più
giovani>>. Così pure l’emigrante del racconto Legalität che, nel
tracciare un rapido bilancio della sua vita, giudica molto positivamente
i lunghi anni di lavoro in Germania dove, grazie alla legalità diffusa
(e applicata con scrupolo), si è sentito rispettato almeno nella sua
dignità di lavoratore, mentre, nel ricordo, grida ancora la propria
rabbia contro la terra d’origine, dove è stato solo sfruttato senza
alcuna pietà. Così, infine, in Naziskin, il giovane studente, figlio di
calabresi, che pur avendo già sperimentato i morsi della violenza sia a
Colonia, sua città natale, che nella terra dei genitori (qui la
‘ndrangheta, là i gruppi neonazisti), non rinuncia a confidare al
professore di italiano (emigrato pure lui) il suo personalissimo
progetto (o sogno) di addizione: <<Ora io non voglio dire che fa schifo
dappertutto, professò, ma quasi. E ho in testa di insegnarmi bene le
lingue, tedesco, italiano, inglese, macàri francese e spagnolo, ho tanti
amici di queste lingue qua che mi possono aiutare, e appena finisco le
scuole e divento maggiorenne ho deciso che parto sicuramente ma non so
dove>>.
Sulla strada di questa progressione tutta incentrata sull’idea della
necessità di una società aperta, inclusiva, multiculturale, Abate tocca
il punto più avanzato in tre racconti - La prima festa del ritorno; Il
Duomo di Colonia; Prima la vita - che per il loro luminoso messaggio di
civiltà, di solidarietà, di tolleranza, meriterebbero di figurare nelle
antologie scolastiche. Nel primo, un gruppo di emigranti, tra cui lo
scrittore stesso,, difende a voce spiegata la scelta di vivere tra più
mondi: <<Insomma,noi al paese non vogliamo rinunciare ma non vogliamo
rinunciare nemmeno alle nostre città e paesi del Nord. Stiamo meglio
così, siamo più completi, più vivi, come un bell’albero che ha radici
profonde qua e altrove, e rami robusti e frutti succosi ovunque>>. Nel
secondo, il bisogno e la speranza di un mondo più giusto si
materializzano in <<uno strano muro di cartoncini attaccati uno accanto
all’altro come mattoni a vista>>. È una parete di cartigli che
l’ideatore, un singolare artista tedesco, ha innalzato di fianco al
Duomo di Colonia. Vi si possono leggere frasi semplici scritte da
persone comuni ma anche riflessioni vergate da personaggi famosi. Sono
pensieri contro la guerra, contro le ingiustizie, contro il razzismo.
Stanno lì come monito alla stoltezza degli uomini,come <<una sorta di
parafulmine contro l’ipocrisia e la violenza del mondo>>. Nel terzo si
svolge la storia più emblematica. A Carfizzi, il paese natale di Abate,
falcidiato dall’emigrazione, arrivano immigrati in fuga dalla fame,
dalle guerre, dai soprusi di ogni specie. La comunità si interroga,
discute, ascolta le loro peripezie, ricorda le proprie, li accoglie con
umanità e rispetto.
<<Impegno e belle storie>> diceva Carmine Abate in una lontana
dichiarazione di poetica che ho richiamato sulla soglia di questa
recensione. Questo libro li contiene entrambi in elevata misura. Sono
storie che si distinguono per il contenuto morale e civile ma anche per
la varietà e la bellezza del dettato. Qui il linguaggio si espande,
libera un’abbagliante pluralità di registri,immette il lettore in un
circuito emotivo ed espressivo di alto livello. Abate non si è fermato
sugli allori conquistati. È di nuovo grande scrittura.
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