VITA
26 ottobre 2003
L'uomo
dai mille sguardi
di Selenia Delfino
Cresciuto in Germania, è un italiano di madrelingua
albanese è Carmine Abate, uno scrittore di successo.
E' italiano, ma la sua lingua madre è l'arbëresh; ha
radici albanesi, vive a Trento, ma si sente profondamente calabrese. Ha
scritto il suo primo libro in lingua tedesca e pubblicherà il prossimo nella
collana Oscar Mondadori, ovviamente in italiano.
Parlare di “identità” con Carmine Abate è piuttosto complicato oltre
che decisamente interessante…
Scrivo libri proprio per cercarla, la mia identità. Il
mio paese, Carfizzi, in provincia di Crotone, è stato fondato dai profughi
albanesi che fuggivano dalla dominazione ottomana alla fine del 1400; la mia
lingua madre è pertanto l'arbëresh, l'albanese antico e fino a quando ho
iniziato ad andare a scuola, parlavo e capivo esclusivamente l'arbëresh.
Dov'è situata la comunità arbëreshë ?
Sono 50 piccoli paesi da circa duemila abitanti ognuno, per un totale di
centomila parlanti. Altri vivono sparsi al nord come me. Noi distinguiamo
ancora la lingua del cuore, che è la lingua madre, dalla lingua del pane che
è quella dei maestri a scuola o dei datori di lavoro, quella che ci consente
di avere rapporti sociali e culturali con gli altri.
Com'è il suo rapporto con la lingua italiana?
Quando ho iniziato a scrivere in italiano ho avuto dei problemi. Era come se
sentissi una sorta di tradimento nei confronti della mia lingua. A volte ci
si dimentica che madrelingua significa “la lingua che parla tua madre”.
È una parola molto bella…
Dopo “Il ballo tondo”, è stato “La moto di
Scanderbeg”a portarla al successo. Chi è Scanderbeg?
Il vero “Scanderbeg del Tempo Grande” è l'eroe dei popoli dell'Albania,
degli albanesi d'Italia, di parte della Grecia e del Kossovo. È il mito che
accomuna tutti quelli che parlano l'albanese antico o moderno. Noi
arbëreshë da piccoli conoscevamo la storia di Scanderbeg attraverso le
rapsodie e i canti che sentivamo durante le feste di fidanzamento o di
matrimonio. Era una storia mitica, ma Scanderbeg è stato un personaggio
reale che ha combattuto per 22 anni contro l'esercito ottomano cinque secoli
fa. Poi molti contadini, come mio padre, hanno fatto l'occupazione delle
terre e hanno lottato come Scanderbeg per raggiungere obiettivi concreti. Da
qui il parallelo tra lo “Scanderbeg del Tempo Grande” e lo Scanderbeg del
mio libro. È un personaggio inventato, ma rispecchia un personaggio reale,
è la sintesi di tanti contadini che, senza saperlo, portavano avanti gli
ideali del vecchio Scanderbeg.
Come ha iniziato a pubblicare in Germania?
Tutto nasce dal fatto di essere figlio di emigrati. In questo modo la mia
situazione linguistica si complica ulteriormente! Mio padre ha cominciato a
lavorare in Francia come minatore quando avevo circa 4 anni, ma come tutti i
contadini diceva di non voler morire “sottoterra”. Così si è trasferito
in Germania per lavorare nei cantieri e ci è rimasto per 30 anni. Io ho
cominciato a passare l'estate ad Amburgo dove lavoravo per pagarmi gli studi
in Italia. Più avanti ho iniziato a scrivere racconti fino poi a pubblicare
il mio primo libro in lingua tedesca.
Cos'ha pensato della realtà dell'emigrazione
italiana quando l'ha conosciuta?
Ho capito perché la parola sacrificio torna sempre nei discorsi degli
emigrati.
Avevo idealizzato mio padre: lo vedevo una volta all'anno e lo immaginavo
come gli emigrati che avevo conosciuto grazie a Pavese: gente che tornava al
proprio paese dopo aver visitato il mondo. Poi ho visto il lavoro duro che
faceva mio padre, che incatramava strade. Consideravo l'immigrazione
un'ingiustizia. Ci sono bambini i cui padri tornano a casa la sera e altri
bambini che vedono il proprio padre solo un mese all'anno. Erano gli anni '60
e '70 e gli italiani vivevano gli stessi problemi che vivono oggi gli
stranieri in Italia, a partire dal razzismo. È allora che ho sentito
l'esigenza di denunciare l'ingiustizia dell'emigrazione. Senza questa
esperienza non avrei mai iniziato a scrivere.
Anche lei ha vissuto parecchio tempo in Germania…
Mi sono laureato ma non ho trovato lavoro nel mio paese. Questa è stata una
grande delusione per mio padre ed è una delle più grandi
illusioni-delusioni di tutti gli emigranti: lavorare con sacrificio perché i
figli non facciano la vita dei padri e non riuscirci. Noi non siamo riusciti
a lavorare nella nostra terra, il sud. Così ho iniziato a lavorare nelle
fabbriche tedesche e nei cantieri assieme a mio padre finché non ho
cominciato a insegnare in Italia, in Valtellina. Ma poi ho preferito comunque
tornare in Germania.
Come mai?
Non vorrei sembrare retorico, ma volevo essere utile ai ragazzi. Insegnavo
italiano ai figli degli immigrati, mi sembrava di avere capito qualcosa di
importante e lo volevo trasmettere. L'emigrazione è una grande esperienza, e
può essere molto positiva. Io non mi sento più uno sradicato, sento di
avere più radici. Certo, non va dimenticato tutto il percorso per arrivare a
questo, che è un percorso anche doloroso, ma l'emigrazione non è solo
questo, è anche e soprattutto arricchimento culturale ed era ciò che
cercavo di trasmettere ai miei studenti. Ero certo che la letteratura potesse
incidere a livello sociale. Oggi so che questo era solo un'illusione che
però un po' ancora vive dentro di me.
La considera un'illusione perché è cambiato il suo
modo di guardare alla letteratura?
Per me fare letteratura era un atto politico, leggevo i miei racconti durante
le “Lesung”… ma poi mi sono reso conto che non abbiamo cambiato la
testa a nessuno: chi era razzista è rimasto razzista. Non credo che la
letteratura possa cambiare il mondo. Tuttavia dentro di me resta una vocina
che mi fa continuare a credere alla letteratura “epica”, impegnata. Mi
sento un autore impegnato, anche se alla fine scrivo storie che mi auguro
siano belle e avvincenti. Scrivere sull'emigrazione, però, vuol dire
scrivere di una cosa immensa e toccare i più grandi temi della vita e della
letteratura di tutti i tempi, come la ricerca dell'identità.
In questi giorni si sta parlando molto della
possibilità di dare il voto agli immigrati…
Premetto che tutto quello che sta succedendo in Italia, a livello politico e
anche letterario, io l'ho già vissuto in Germania negli anni '70 e '80. Io
stesso, come italiano, rivendicavo il diritto di poter votare alle elezioni
amministrative e alle politiche. Mi sembra un diritto elementare e questa
proposta mi rende felice. Mi meraviglio che venga dalla destra, ma ben venga!
Come questo diritto è stato dato in Germania, lo stesso succederà in
Italia. Non può non essere così, sarebbe una situazione antistorica e
antieuropea. L'Europa implica l'integrazione e l'integrazione non è
cancellare la propria identità, ma è vivere in prima persona i problemi
dello stato che ci ospita. Bisognerebbe dare subito anche la cittadinanza ai
figli degli immigrati.
Lei è anche un insegnante. Porta le tematiche dei
suoi testi in classe?
In effetti, io credo che determinati temi debbano entrare nelle scuole. Se i
ragazzi leggono queste esperienze, aprono gli occhi. Il problema è che
questioni di questo tipo vengono trattate di solito in maniera didascalica e
pesante. Invece, prendendo spunto dai temi dell'immigrazione, bisogna
scrivere delle grandi storie, delle belle storie.
Che età hanno i suoi studenti?
Insegno in una scuola media, mi piace molto insegnare ai ragazzi di questa
età.
Come vede questi ragazzi?
Frastornati. Sono tempestati di informazioni, di immagini e giochi. Ma se
l'insegnante ha la capacità di cambiare una situazione potenzialmente
negativa - questo essere frastornati - in una positiva, allora i ragazzi
reagiscono bene. Si dice che i giovanissimi non leggono, ma io li porto ogni
settimana in biblioteca. Usciamo da scuola un'ora e andiamo alla biblioteca
comunale. Loro prendono i libri, se li scambiano ed è un ora di relax per
tutti. Ci sono nelle mie classi dei ragazzi che hanno letto anche 40 libri in
un anno. Non è vero che non leggono! Dipende dall'insegnante. Non è vero
che non siano sensibili a certi temi! Dipende dall'approccio. Con le mie
classi abbiamo affrontato anche il discorso della scrittura, abbiamo scritto
due libri: un romanzo a più mani e una raccolta di racconti. Uno di questi
due libri viene adottato nella scuola italiana all'estero perché è
avvincente ed è scritto con un linguaggio molto semplice.
Pensa che queste possibilità verranno limitate
dalla riforma della scuola in atto?
Proprio in questi giorni sto facendo come insegnante, molti corsi su queste
nuove regole e sento continuamente concetti come quello del “portfolio
delle competenze”. Mi fa paura. Ma alla fine la scuola la fanno gli
insegnanti… perché alla fine si ha a che fare con delle persone! Ci sono i
bambini e i ragazzi da una parte e gli insegnanti dall'altra.
Ha appena finito di lavorare a un nuovo libro. Può
anticiparci qualcosa?
Uscirà a marzo 2004. È la storia di una resa dei conti fra un padre
emigrato e un figlio che è cresciuto senza di lui. In una notte di Natale i
due si parlano e c'è una riconciliazione.
E' molto autobiografico…
In parte. Prendo il via sempre da dati autobiografici, poi invento. La
letteratura dell'immigrazione fino a ora è stata troppo “reportage”, “documento”
e forse i lettori la identificano ancora in questo modo.
All'inizio dell'intervista ha detto di scrivere per
cercare la sua identità…pensa di averla trovata con questo libro?
Ho tanti frammenti di identità che cerco di ricomporre e di mettere assieme.
A volte sono lo scrittore arbëreshë, in un'altra situazione sono invece lo
scrittore dell'emigrazione, oppure il narratore meridionale… questo mi
piace, ma non riesco proprio a definirmi. E sono contento di questo perché
dalla mia identità frammentaria ho la possibilità di capire. è un
vantaggio: vuol dire avere tanti sguardi e tante orecchie per capire questa
Europa multiculturale.
Selena Delfino
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