Poesia,
marzo 2012
Terre di andata
di Giuseppe Lupo
Carmine Abate - non lo scopriamo certo ora - è
uno scrittore di viaggi. Ce lo testimoniano i romanzi, ma anche i versi
di questa raccolta (nata dall'ampliamento di una precedente
pubblicazione, omonima nel titolo, edita nel 1996 a Lecce presso Argo)
che con il registro narrativo mostrano diversi punti in comune.
Innanzitutto l'attitudine al narrare. Molti di questi testi, infatti,
sono delle microstorie in versi, manifestano un alto grado di
raccontabilità, si proiettano addirittura nello stile della
conversazione, come in Viaggio di andata: «No, credimi ma', non
fa tanto freddo / come si dice laggiù, è una bella città, / e poi non mi
sembra nemmeno straniera / tant'è piena di gente come noi. Sì / bene, e
tu? Non preoccuparti. La valigia / non me l'hanno rubata, ce l'ho qui /
ai miei piedi, tutto a posto, sto bene, / il viaggio è volato». Nulla
vieta di ipotizzare che la scena si svolga dentro una cabina telefonica,
dove l'io narrante comunica alla madre i modi e i sentimenti del suo
arrivo. Quando parlavo di conversazioni, non alludevo soltanto a quelle
tra gli essere umani, ma a una più vasta predisposizione a dialogare con
il mondo, a considerare una parte dell’anima anche le terre inquiete
delle partenze e degli arrivi, insieme con quel vasto panorama di voci
indistinte di cui alcuni testi, i più esemplari di una certa, metafisica
condizione migrante, restituiscono così bene: «Vete e torno / ich gehe e
vado / inciampo sul guado / dell'Umlaut mi graffio / al confine e gjuhës
çë pret / ashtim come un coltello / che taglia le lingue mentre / ich
gehe e vado e vete / senza mete» (Ich gehe e vado e vete). Qui
coesistono almeno tre idiomi: l'italiano, il tedesco e l'arbëreshe. E
credo anche che in un frammento del genere ci sia una forte energia
poetica, se è vero che la lingua, con le sfumature, i suoni, gli echi
antichi, è il grande magazzino di chi scrive.
Ma non è solo l'attenzione conversativa a muovere questi componimenti
poetici verso una sensibilità narrativa. Lo è anche l'invenzione di
poesia-prose, da cui discendono le "proesie": veri e propri inserti di
meccanismi lessicali sospesi tra la discorsività delle parole e le pause
di silenzi, fra il troppo osare e l'essere reticenti, tra il guardarsi
intorno e il guardarsi dentro. Intorno a questa misura stilistica, che
Abate sperimenta con valida sicurezza, restiamo sorpresi e lievemente
incantati dal gioco del ritmo, che è quello dei versi, anche se si
tratta di episodi comunicati senza la pausa degli a capo. Anche in
questo caso registriamo un dialogo, che assume l'aspetto di un
andirivieni fra il desiderio di un recupero memoriale (che Abate affida
alle poesie) e una sorta di giustificazione morale, una specie di
analisi della storia (che invece effettua in queste proesie). Dunque c'è
la scrittura del cuore e la scrittura della mente, il ricordo e la
ragione, l'amore e l'ideologia. Ma poi tutto si ricompone e, come nel
romanzo Il ballo tondo (1991), ogni cosa torna al proprio posto,
Viaggio di andata, un dei testi che apre la raccolta, chiude il
cerchio con Viaggio di ritorno, che invece sta a congedo. Quasi a
indicare il senso di una circolarità o di una ciclicità, una specie di
chiave per leggere i viaggi. Anche Ulisse, infatti, compie un itinerario
circolare dentro il Mediterraneo e in queste Terre di andata
Ulisse si presenta non più con i panni dell'eroe proteso a conoscere, ma
«è un germanese», un emigrante la cui odissea è «ridotta all'essenziale:
/ una vita di lettere e di vaglia» (Tua madre e F. G. Lorca). Il
nome di Ulisse apre, com'è naturale, una serie infinita di rimandi.
Soprattutto ci ricorda che al fondo di queste pagine agisce il paradigma
dell'assenza («Tu non ci sei e io non posso / che amarti in lontananza»;
Lo sfondo è di cartapesta) o il tema della spaesamento quale
condizione perenne di chi vive. Perciò si continua a parlare di case
vuote e il termine "dimore" fornisce il titolo a tre diverse sezioni:
Dimore tra me, Dimore di me, Dimore tra noi. Perdersi, ritrovarsi
non sono che predicati, ma alludono a un gran progetto che gli individui
hanno l'obbligo di percorrere e che in questo suo labirinto di vincoli
fiaccati dalla distanza, Abate affida alle parole di una filastrocca:
«Dimore di me per amore / dimore tra me indolore / di more in me con
sapore // Ma gira gira il mondo / il ballo è sempre tondo / gira la mia
testa / tutti qua a far festa» (Giochi di more I).
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