Literary, n.11/2011
Ho conosciuto Carmine Abate nella città di Offida, (Ascoli Piceno) durante la serata conclusiva della Sesta edizione del Premio letterario Joyce Lussu. Mi ha fatto dono del suo libro di poesie Terre di andata che ho letto con molto interesse. E’ calabrese Carmine Abate, nato nella comunità arbereshe (cioè italo-albanese) di Carfizzi, (Crotone) ed ha al suo attivo molti romanzi e diversi premi. Tra i suoi tanti romanzi si incastona, come pietra preziosa, la silloge di poesie Terre di andata che ripropone, in chiave poetica e con stile personale, oscillante tra l’introverso e l’estroverso, il tema portante di tutta la sua produzione narrativa: il fenomeno dell’emigrazione. Poesia di viaggio e di ricerca, dunque, ma anche di solitudine e di sofferenza. Poesia che attinge al “reale”, al quotidiano, alla vita che si consuma in gesti a volte insignificanti. Ma è proprio da qui che si aprono spiragli di una realtà più profonda, dove l’esistenza dolente del soggetto migrante acquista significato oggettivo e rimanda ad uno dei temi filosofici–letterari più affascinanti e dibattuti : il rapporto dell’uomo con il mondo. Un testo certo di grande impatto emotivo, quasi diario spirituale di chi peregrinando, di città in città, scandisce e racconta la propria vita. La scrittura, un intreccio tra poesia e prosa, è sempre asciutta, quasi secca, ma la lirica esce spontanea dall’insieme, diventa “racconto” che risveglia dal torpore di uno sguardo assopito e riporta alla luce i dettagli del mondo. La scrittura si fa più intensamente poetica ed efficace quando fissa e ingloba anche la sua vocalità, quando Abate poeta scrive poesie di voce, poesia sensoriale, percettiva e concettuale: Attento alla parola - sensazione | Tempo…quando si fa carico e s’impegna a far sprofondare e a lasciarsi affondare in un dire il cui soggetto non ha più un grammo …né da vendere né da svendere (Clessidra) e con ritmo martellante va a cercare l’amore | di more | per ore… Eppure qualcosa di sfuggente, di indeterminato o semplicemente di sconosciuto rimane: una polvere, una frantumazione da cui ricavare immagini e suoni a cui solo la poesia può dare senso. Essenzialmente, però, ciò che impregna intimamente la silloge è l’”andare”, “ il movimento” durante il quale si mescolano, in sinestesie ricche di significati, immagini palpabili, visive e mentali. Terre di andata si struttura in quattro sezioni: Dimore tra me – Dimore di me – Di more – Di more di noi, disposte volutamente (ha detto l’autore) in ordine decronologico e ciò, credo, perché tra le varie parti, la forza dei sentimenti determina una sorta di rispecchiamento dell’io nell’altro, dell’io nella natura (impigliato anch’io | nel grido del sole | e del mare m’inventai | fico d’India in fiore…), di circolarità (un nulla noi cerchio riproducibile nell’acqua | in balia di se stesso e di tante forze oscure?) tra l’io (tra me, di me) e il “noi “. Un rapporto circolare che libera nuovi significati, oltre la centralità del soggetto “viator”. Una poesia, dunque, che si proietta oltre l’orizzonte fisico delle terre di andata ed invita a cercare il significato del viaggio anche nel proprio percorso. In questa prospettiva le terre di andata potrebbero diventare “terre senza frontiere”, terre incognite, in quanto il viaggio, se inteso come ricerca, come conquista, come metafora della vita, anche nella vicenda esistenziale dell’emigrante, si gioca nella sostanziale polarità tra la fedeltà alle radici della terra natale, ai valori del territorio (in cui si è cresciuti) e la scommessa della ricerca, della conoscenza (vivere per addizione) sempre più vasta , più completa, infinita. In tale “nomadismo” è pensabile – come scrive Flavio Ermini – anche il movimento che porta verso l’altra parte di noi stessi: l’inexplicable mallarmeano. In ogni caso è sempre un movimento accidentato, tortuoso, continuo, un’immersione nelle tenebre per scoprirvi – si spera – la luce.
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