La Sicilia
19 febbraio 2002
Tra due mari
di Giuseppe Traina
Affermava Carmine Abate nel 2000, su
“L’Indice”: «Lo scrivere in una lingua diversa dalla madrelingua ha
anche un vantaggio, soprattutto per chi come me scrive su temi come
l'emigrazione, le minoranze: un certo distacco dalla materia trattata, una
specie di filtro capace di eliminare le scorie tradizionali più
inflazionate: la nostalgia lamentosa, la denuncia scontata. Questa
lingua-distanza è per me la chiave per rientrare nei miei luoghi o
raccontare i miei personaggi arbëreshë o germanesi, attraversati più o
meno consapevolmente dal plurilinguismo e dal multiculturalismo».
Bisogna,
credo, partire da queste parole per capire l’evoluzione della sua scrittura
alla luce di Tra due mari (Mondadori, 2002), il suo romanzo più
felice, arioso, composito. Nei primi due romanzi – Il ballo tondo (Marietti,
1991; poi, rivisto, Fazi, 2000) e La moto di Scanderbeg (Fazi, 1999)
– avevamo amato la capacità di rappresentare, con sensibilità
trepidamente rivissuta, l’ibrido stato di sradicamento e di attaccamento
alle radici culturali di chi parte o prova a ritornare ad Hora, paese di
lingua e cultura arbëreshë della Calabria più povera, da cui quasi tutti
emigrano per trasformarsi in “germanesi”.
Attraverso
anche racconti (Il muro dei muri, Argo, 1993) e poesie (Terre di
andata, Argo, 1996), Abate ha sondato i vari strati che compongono la
cultura e il patrimonio esistenziale di sé e della sua gente: arbëreshë,
calabresi, italiani, germanesi. Nei racconti ha privilegiato la realtà
tedesca degli emigrati, dei “germanesi”. Nei romanzi ha creato un
microcosmo compiuto, l’immaginaria Hora, facendone un crogiuolo di antiche
memorie mitiche (l’eroe nazionale Scanderbeg, l’aquila a due teste) e di
contraddizioni reali del presente: povertà, invidie, rancori, soprusi,
incomprensioni fra chi parte e chi rimane, fra slanci di fuga e nostalgie di
ardui ritorni. Una realtà bella e povera, sostanzialmente struggente, che può
improvvisamente illuminarsi al canto di una rapsodia tradizionale, a un ballo
tondo, al sogno del volo di un’aquila bicipite.
Tra due
mari è un’altra cosa: è ancora Calabria, è ancora Germania, ma non
è più arbëreshë. Eppure, sottotraccia, lo è ancora. Provo a spiegarmi
meglio, anche se nulla sarà più chiaro dell’auspicabile lettura del
romanzo. Non siamo più ad Hora, ma in un altro paese altrettanto piccolo e
povero, collocato fra Ionio e Tirreno: vi si fermò Alexandre Dumas,
alloggiando alla locanda Fondaco del Fico, scrivendone nel suo diario di
viaggio, custodito come una reliquia dai discendenti Bellusci; ma la locanda
fu distrutta dalle truppe regie inviate a reprimere il brigantaggio: una
ferita non rimarginata, testimoniata da un rudere imponente. Intorno a questo
testimone muto s’incardina il sogno del settantenne Giorgio Bellusci che
vuol costruire un albergo moderno. Chi ha letto Il ballo tondo e La
moto di Scanderbeg sa quanto siano importanti, per Abate, i progetti
arditi e le figure di vecchi dal vitalismo indomito: la novità è che quello
che nei primi due romanzi era arbëreshë ora è calabrese. E,
conseguentemente, se nei romanzi di Hora le controspinte all’immobilismo e
alla rinuncia erano tutte interne al microcosmo, nutrite di inerzia e di
scetticismo, qui appaiono, minacciose, le remore storiche, i mostri della
realtà più violenta: in una parola, la ‘ndrangheta. Che vuole
imporre a zu’ Giorgio Bellusci la legge del pizzo: ma l’uomo si ribella,
uccide il mafioso che lo minaccia e lo appende ad un gancio della sua
macelleria. Ne ricaverà otto anni di carcere ma non abbandonerà il suo
sogno, che assumerebbe contorni retoricamente titanici se egli, scontata la
pena, non avesse l’intelligenza di associare a sé energie nuove: il nipote
Florian, figlio della figlia e di un mite bancario tedesco, nato e cresciuto
ad Amburgo e dunque nemmeno “germanese”, ma tedesco a tutti gli effetti.
Il ragazzo, che è poi l’io narrante, fatica a
capire il sogno del nonno, verso il quale, anzi, manifesta fin da bambino una
sorda ostilità che gradualmente si trasforma in ammirazione e, infine, in
condivisione del progetto. E’ aiutato, in questo, dall’amore di Martina,
entusiasta ammiratrice di zu’ Giorgio, splendida ragazza nella quale
ritrova la solarità di tutte le donne della sua famiglia. In questo
orizzonte di positività femminile, sbiadiscono le figure maschili, il padre
Klaus e lo zio Bruno, ad eccezione del nonno e del suo amico di tutta una
vita: il fotografo tedesco Hans Heumann, che nell’immediato dopoguerra lo
portò con sé in un memorabile viaggio di gioventù alla scoperta di una
Calabria arcaica da immortalare con l’obiettivo. Attenzione: questo
fotografo, diventato una celebrità internazionale, è anche il nonno paterno
di Florian, e avrà un ruolo decisivo nella sospirata riedificazione del
Fondaco del Fico. Se – come è inevitabile in un romanzo così
frondeggiante di storie e personaggi accattivanti – mi sono finora
dilungato sulla fabula del testo, è arrivato il momento di fermarsi
qui. Tra due mari è così pieno di sorprese, di svolte narrative
impreviste eppure ben calibrate in uno studiatissimo gioco di equilibri, che
non spetta al recensore svelare per intero un intreccio di tale piacevolezza.
Anche perché è la conclusione a racchiudere il sugo, dolceamaro, della
storia, a connotarne ideologicamente i germi solari della speranza e
dell’ottimismo ma pure l’ombra lugubre della violenza persistente (e in
tal senso, forse, come non molti romanzi italiani di oggi, questo sembra
prontissimo ad un adattamento cinematografico, magari per la cinepresa del
calabrese Amelio).
Vorrei
piuttosto soffermarmi sulla qualità della strutturazione del testo, tutta
giocata sul tema del viaggiare. Da due viaggi muove tutta la vicenda: quello
ottocentesco di Dumas e del suo amico pittore Jadin, replicato da quello
novecentesco di Hans Heumann e Giorgio Bellusci, scandito dalla luce e dalle
rondini, da un infinito sentimento di libertà. E sui tragitti
Germania-Calabria di Florian e dei suoi familiari sono scanditi i capitoli
del libro: viaggi invernali in una Calabria innevata e riscaldata dai fuochi
delle tradizioni natalizie, ma soprattutto in un’abbagliante Calabria
estiva, fitta di boschi pronubi e di sensualità. Viaggiano i personaggi,
viaggiano anche i racconti: come gli altri di Abate (La moto di Scanderbeg
cominciava così: «“E poi ci raccontò quest'incredibile storia"»),
anche Tra due mari è caratterizzato dal dominio dell’oralità. Il
ricordo della sosta di Dumas, infatti, è affidato meno al romantico scrigno
profumato di bergamotto che ne racchiude il diario che ai racconti tramandati
all’interno della famiglia Bellusci e dei quali la madre di Florian è
appassionata vestale.
E’ su
questa problematica ma tenace oralità che si fonda l’epicità dei testi di
Abate, e di quest’ultimo in particolare. Perché - e qui torna
impercettibilmente il retroterra arbëreshë – forse un’epica è ancora
oggi possibile: non nelle forme, che sanno tutte le scaltrezze novecentesche
della manipolazione dell’intreccio, delle voci, dei punti di vista; ma
almeno nella sostanza residua, nel nocciolo ingenuo e fascinoso di un mondo
che conosce tuttora la dimensione del “vicinato” e che guarda al passato
come patrimonio di archetipi ancora riproponibili – in qualche arduo modo -
nel presente. Se La moto di Scanderbeg – come scrisse Francesco Roat
– poteva essere «un'epica minore dove si narra l'antieroica impresa di
sopravvivere», Tra due mari segna un passaggio ulteriore, che mi
pare, tutto sommato, un progresso: un’epica che va oltre la mera
sopravvivenza, nella dimensione progettuale dell’utopia, rinsaldata e resa
possibile dalla staffetta generazionale nonno-nipote. Solo che questa
staffetta rimuove la presenza del padre: Klaus, il padre di Florian, è un
testimone muto, sorridente, impacciato, affettuoso ma sostanzialmente
estraneo al mondo calabrese che è riuscito, col richiamo potente dei miti, a
risucchiare il ragazzo tedesco. Tanto che l’accordo finale tra nonno e
nipote finisce per essere, in modo forse fin troppo ottimistico, un modo di
risolvere più laceranti conflitti di natura psicologica, le cui tracce sono
però l’ennesima ricchezza del libro. Senza parere, ché apparentemente il
passo è epico e felice della pura fabulazione, viene fuori da Tra due
mari una potente rappresentazione dell’incomunicabilità fra padri e
figli maschi: se l’accordo regna sovrano fra Giorgio Bellusci e le due
figlie femmine, e tra Florian e la madre, il rapporto fra Hans Heumann e il
figlio Klaus è dolorosamente fallimentare. Un padre assente per eccesso di
irrequieta vitalità, un figlio che si chiude nel silenzio, nell’oscuro
lavoro impiegatizio. Klaus è l’uomo che porta in faccia «il sorriso finto
buono di chi teme gli altri e la vita», che guarda timidamente un padre
troppo ingombrante: nemmeno la propria paternità gli ha permesso di superare
questo enorme bisogno di padre, di essere gradito ad un padre che, - quando
Klaus gli mostra, orgoglioso, un suo saggio pubblicato da un’importante
rivista americana -, non trova di meglio che deridere la serietà della
rivista, parlando di se stesso, come sempre.
E quando
anche un personaggio secondario, come qui Klaus, riluce di tale verità,
bene, questo è il segno che siamo di fronte ad un grande romanzo.
Giuseppe
Traina
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