Segno, mensile
settembre-ottobre 2002

La moto, il ballo, l'aquila e i due mari

Appunti sulla narrativa di Carmine Abate

Giuseppe Traina


     Non credo esista, attualmente, un narratore italiano che meglio di Carmine Abate abbia saputo rendere la sua scrittura un crocevia di culture, un luogo dove s’incontra l’altro nella sua pura essenza, che è linguistica, e nella sua ricchezza interiore, che è memoriale.
     Solo un altro scrittore italiano mi pare sappia realizzare un tale fecondo incrocio di culture diverse nel crogiuolo della lingua e nel fuoco dell’ispirazione, ma è un poeta, un grande maestro, Franco Loi, che scrive in un idioma di base milanese ma arricchito dagli echi di quei dialetti che sono stati portati nella metropoli dalle diverse ondate migratorie.
     Entrambi questi scrittori collocano i loro testi ad un livello diverso rispetto all’esempio iperletterario del mélange plurilinguistico o a quello del confronto binario lingua-dialetto: nei libri di Abate
1 all’intersezione linguistica fra italiano, arbëresh (la lingua parlata nelle enclaves albanesi d’Italia), calabrese, tedesco e “germanese” corrisponde una forte coscienza antropologica delle diverse appartenenze culturali e del loro originale ed inevitabile mescolarsi in un’entità nuova e diversa, più ricca perché meticcia ma anche più dolorosa perché frutto «di smarrimento culturale, di crisi e di sospensione di identità»2, di conflitti con gli altri e con se stessi, con l’altro e con l’altro che è in noi.3
     «Le storie che mi ronzano in testa continuo a sentirle in una Babele di lingue: l'arbëresh, che è la lingua in cui penso e sogno, l'italiano della mia scolarizzazione, il calabrese, il tedesco, il germanese, cioè la lingua ibrida degli emigrati; e poi le parole e i modi di dire dei tanti luoghi in cui ho vissuto. Perciò sono costretto, di storia in storia, a reinventare una mia lingua, stando attento a non perdere la musicalità delle lingue e delle storie che ho dentro».
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     Abate ha piena coscienza di tali fenomeni e delle intrinseche possibilità che essi offrono: «Lo scrivere in una lingua diversa dalla madrelingua ha anche un vantaggio, soprattutto per chi come me scrive su temi come l'emigrazione, le minoranze: un certo distacco dalla materia trattata, una specie di filtro capace di eliminare le scorie tradizionali più inflazionate: la nostalgia lamentosa, la denuncia scontata. Questa lingua-distanza è per me la chiave per rientrare nei miei luoghi o raccontare i miei personaggi arbëreshë o germanesi, attraversati più o meno consapevolmente dal plurilinguismo e dal multiculturalismo».
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     Ma la resa narrativa di tale consapevolezza culturale non ha nulla di intellettualistico, innanzitutto perché ha origine nell’esperienza personale dell’autore: «Ho cominciato a scrivere le mie storie per un motivo ben preciso: volevo denunciare l'ingiustizia della costrizione a emigrare. E naturalmente parlavo di situazioni vissute in prima persona: a quattro anni avevo visto partire mio padre per la Francia, con un contratto in tasca da minatore, e l'anno dopo per la Germania, dove è rimasto venticinque anni, prima da solo, poi con mia madre, mentre io facevo la spola tra Amburgo e Carfizzi. Dopo la laurea, a ventun anni, sono stato costretto anch'io a stabilirmi in Germania per motivi di lavoro, e ho vissuto in prima persona i problemi del vivere tra più mondi e più lingue, cogliendone però anche gli aspetti positivi».
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     Del resto, il piccolo grande miracolo della sua scrittura sta proprio nella resa “spontanea” e sorgiva di un’affettività assai passionale (che può perfino sfiorare il mélo) e di un istinto narrativo che affonda le sue radici nella ricca narratività popolare dell’epopea. Tutto ciò è supportato - e si tratta certamente di un importante valore aggiunto – da un’indefettibile consapevolezza politica di quello che è, riassume da par suo Vincenzo Consolo, «il problema o il dramma del nostro tempo, in questo nostro contesto occidentale: l'obbligo della cancellazione del passato, di ogni memoria, per potere vivere nel presente»
7. La risposta di Abate è, polemicamente, proprio il recupero tenace della memoria, dell’identità arbëreshë necessariamente filtrata dalla nuova esperienza di chi è rimasto in Calabria o di chi è emigrato in Germania: ma non si tratta di un recupero fine a se stesso, anzi i personaggi-portavoce che riescono a realizzare tale sintesi lo fanno per riproporre con rinnovato entusiasmo nuove scommesse esistenziali, pur senza ignorare le contraddizioni del presente.
     Succede perciò che le frasi o le parole in tedesco, in arbëresh, in calabrese o in “germanese” si inseriscano morbidamente nel tessuto linguistico che resta, com’è naturale, a dominante italiana. Senza stridori voluti, senza compiacimenti localistici, senza ammiccamenti folkloristici. Con grande naturalezza, in modo credibile: probabilmente perché alla base di tutto stanno, nella vita di Abate, dialoghi e narrazioni autentiche, nenie e rapsodie ascoltate da bambino, vivendo in un mondo che conosceva spontaneamente la dimensione del vicinato, entro famiglie ampie e a struttura quasi patriarcale.
     Avviciniamoci alle storie narrate da Abate, con l’avvertenza che se Il ballo tondo e La moto di Scanderbeg possono essere facilmente visti come un dittico, il “dittico di Hora” (un trittico, in realtà, se aggiungessimo i racconti del Muro dei muri, spesso cartoni preparatori di episodi o atmosfere dei romanzi), Tra i due mari costituisce una svolta nell’itinerario narrativo del Nostro.
     Nel Ballo tondo si racconta la storia di una famiglia, attraverso l’ottica narrativa del bambino Costantino Avati: il padre, Francesco detto il Mericano, impetuoso e malinconico, è emigrato in Germania dalla nativa Hora (toponimo sostitutivo del paese nativo dell’autore, Carfizzi); lo aspettano in Calabria la madre con Orlandina e Lucrezia, le sorelle fascinose ed inquiete di Costantino, e il nonno, nani Lissandro, disincantato ma saggio, emblema occiduo di un “passato assoluto” che pare destinato a tramontare (e simbolo ancora più significativo di questo mondo è un suo amico, il leggendario rapsodo Luca Rodotà). Mentre Orlandina va sposa ad un bravo giovane trentino che la porta con sé fra i monti e i meli, il ragazzo è naturalmente proteso verso il futuro ma è anche attirato dal passato mitico degli arbëreshë, rafforzato dalla stima del maestro Carmelo Bevilacqua, che è innamorato di Lucrezia ma anche del patrimonio folclorico di Hora; presto Costantino conoscerà l’amore, nella persona della sensuale e fascinosa Isabella. Sullo sfondo, l’andirivieni dei “germanesi”, l’amore tragicomico di Lucrezia e del maestro, le leggende e le tradizioni secolari: le rapsodie, il ballo tondo, l’aquila a due teste, i riti natalizi.
     Nella Moto di Scanderbeg il confronto tra passato e presente si politicizza nella figura del padre del protagonista, Giovanni Alessi, in fuga da Hora in Germania dove ha raggiunto Claudia, che lavora da giornalista e, indipendente e felice, ha giurato di rompere con il passato calabrese. Il padre di Giovanni, soprannominato Scanderbeg come l’antico eroe della resistenza albanese ai turchi (cioè «Scanderbeg del Tempo Grande»), in sella alla sua inseparabile moto Guzzi Dondolino era diventato, nell’immediato dopoguerra, il leader comunista delle rivolte contadine nel suo territorio, prima di morire per un’assurda scommessa, con grande soddisfazione dei maggiorenti locali. La figura indomita ed appassionata di Scanderbeg rivive nel ricordo di Giovanni, della madre Lidia e dello zio, e s’intreccia con la presenza del fiabesco Stefano Santori, il ragazzo «dagli occhi di calamita», il veggente che ritorna nella vita adulta di Giovanni per costituire un ponte tra passato e futuro.
     In Tra due mari c’è ancora la Calabria, c’è ancora la Germania, ma manca la dimensione arbëreshë. Eppure, sottotraccia, essa c’è ancora. È vero che il romanzo non è ambientato più ad Hora, ma in un altro paese altrettanto piccolo e povero, collocato fra Ionio e Tirreno, dove si fermò nel XIX secolo Alexandre Dumas, alloggiando alla locanda Fondaco del Fico, e scrivendone nel suo diario di viaggio, che viene custodito come una reliquia dai discendenti del locandiere Bellusci
8. La locanda fu distrutta dalle truppe regie inviate a reprimere il brigantaggio: una ferita non rimarginata, testimoniata da un rudere imponente. Intorno a questo testimone muto s’incardina, in pieno Novecento, il sogno del settantenne Giorgio Bellusci che vuol costruirvi un moderno albergo. Se nei romanzi di Hora le controspinte all’immobilismo e alla rinuncia erano tutte interne al microcosmo arbëresh, nutrite di inerzia e di scetticismo, qui appaiono le remore storiche di tutta la regione nella loro realtà più violenta: in una parola, appare la ’ndrangheta, che vuole imporre a Giorgio Bellusci la legge del “pizzo”. Ma l’uomo si ribella, uccide il mafioso che lo minaccia e lo appende ad un gancio della sua macelleria. Ne ricaverà otto anni di carcere ma non abbandonerà il suo sogno, che assumerebbe contorni retoricamente titanici se egli, scontata la pena, non avesse l’intelligenza di associare a sé energie nuove: il nipote Florian, figlio della figlia e di un mite bancario tedesco, nato e cresciuto ad Amburgo e dunque tedesco a tutti gli effetti.
     Il ragazzo, che è poi l’io narrante, fatica a capire il sogno del nonno, verso il quale, anzi, manifesta fin da bambino una sorda ostilità che gradualmente si trasforma in ammirazione e, infine, in condivisione del progetto. È aiutato, in questo, dall’amore di Martina, splendida ragazza nella quale ritrova la solarità di tutte le donne della sua famiglia. In questo orizzonte di positività femminile, sbiadiscono le figure maschili, il padre Klaus e lo zio materno Bruno, ad eccezione del nonno e del suo amico di tutta una vita: il fotografo tedesco Hans Heumann, che nell’immediato dopoguerra lo portò con sé in un memorabile viaggio di gioventù alla scoperta di una Calabria arcaica da immortalare con l’obiettivo. Questo fotografo, diventato una celebrità internazionale, è anche il nonno paterno di Florian, e avrà un ruolo decisivo nella sospirata riedificazione del Fondaco del Fico. Il romanzo però non ha conclusione del tutto lieta: l’albergo sarà sì ricostruito con successo ma la vendetta della ’ndrangheta raggiungerà Giorgio e il suo amico Hans.
     Basta questa rapida ricapitolazione dei tre romanzi per notare come Abate – soprattutto nel “dittico di Hora” - si muova agevolmente in una dimensione epica che sembrava quasi negata alla narrativa contemporanea occidentale, e pareva appannaggio forse soltanto di contesti antropologici ancora relativamente pre-moderni (si pensi all’epica latinoamericana o centroamericana - e non solo ai grandi maestri del “realismo magico”
9 ma anche alla poematicità caraibica di Derek Walcott - o a certa narrativa africana o asiatica di lingua inglese).
     Questa efficace “scelta dell’epos” è agevolata dalla sopravvivenza nella cultura arbëreshë di rapsodie
10 e miti epicamente atteggiati, nonché di figure magico-fiabesche e soprattutto dalla fondamentale dimensione del “vicinato”, così spesso evocata dai personaggi di Abate. Che però, segno di notevole maturità dialettica, non restano prigionieri dell’incantamento epico, ma sanno lucidamente scorgerne i limiti, le angustie, le ristrettezze. Tanto da arrivare a deprecare «la soffocante sensazione di essere circondato da futuri fantasmi, da finte aquile bicipiti, da promesse cantate e ripetute»11. Non sarà allora un caso se a Tra due mari, che si colloca fuori dal dittico più propriamente epico, manca la dimensione mitico-favolistica, solo parzialmente presente nella tenace fedeltà alle memorie familiari della stirpe Bellusci, simboleggiate dallo scrigno contenente il diario di viaggio di Dumas. D’altronde, nel gioco di simmetrie costruttive che si può scorgere dietro le intelaiature narrative di Abate, esistono dei personaggi che fanno da contrappeso in quanto portatori di razionalità: il maestro Carmelo Bevilacqua nel Ballo tondo, la madre di Florian in Tra due mari.
     Ma l’elemento decisivo che rende ancora possibile la dimensione epica è l’adozione di un punto di vista narrativo infantile: carta che Abate gioca in modo smaliziato, rendendola dominante nel Ballo tondo, ma facendola emergere con intelligenza anche nella Moto di Scanderbeg e in Tra due mari (dove sembra quasi che si alluda a privilegi e limiti di tale ottica fin dall’incipit, diretto ed efficace come in tutti i testi di Abate: «Che ne sapevo di lui? Un giorno di luglio fu arrestato e sparì dalla mia vita per anni, senza che nessuno si degnasse di raccontarmi la sua storia. Ero un bambino. Quel poco che sapevo erano bugie, col tempo le dimenticai.»
12). Derivano dall’ottica infantile altri due elementi importanti: la deformazione straniante a cui vengono sottoposti fatti e individui della realtà (si vedano il personaggio di Viatrice delle Fate nel Ballo tondo e l’arrivo dei “teatristi”, i sogni di Giovanni e il ragazzo «dagli occhi di calamita» nella Moto di Scanderbeg) e la naturalezza con cui vengono presentati tòpoi fiabeschi come i boschi, gli oggetti magico-simbolici (la Guzzi Dondolino o il quaderno di Dumas), i tesori nascosti (si veda il racconto Il tesoro di Scanderbeg nel Muro dei muri), i luoghi segreti (il Castello del Piccolo nel Ballo tondo, la grotta nascosta nella Moto di Scanderbeg, la casa della cugina in Tra due mari – anche se quest’ultima assolve poi la precisa funzione di luogo degli incontri erotici fra i due adolescenti13).
     Peraltro, la ricorrenza tematica è nei tre romanzi di Abate il segno di una continuità, della fedeltà ad un’ispirazione genuina ed originale. Elenco rapidamente alcuni temi topici: le figure genitoriali (padri o nonni) sono caratterizzate dall’amore contrastato che infine trionfa, da un’incontenibile furia costruttiva (il Mericano che vuole ricostruire il Castello del Piccolo; la battaglia sindacale di “Scanderbeg”; l’utopica riedificazione del Fondaco del Fico), da una strenua fedeltà alle amicizie giovanili (Nani Lissandro e Luca Rodotà, Giorgio e Hans), dal forte senso della giustizia (di “Scanderbeg” e Giorgio Bellusci). I giovani, figli o nipoti, testimoni di queste vicende, sono colti in fasi di cambiamento (dall’infanzia all’adolescenza o dall’adolescenza alla maturità) e la loro Bildung si compie nel segno di una grande serietà di fondo, che dà importanza agli appuntamenti basilari della vita (gli esami scolastici, il primo lavoro); partecipano della cultura dei progenitori grazie alla sopravvivenza affascinante della cultura orale (le rapsodie, i racconti dei nonni e delle madri, la leggenda familiare del Fondaco del Fico); completano la loro formazione nell’incontro con ragazze passionali e per nulla subalterne, le cui scelte avranno spesso valore di svolta, e che replicano, in tal senso, il protagonismo di madri o nonne altrettanto forti e generose.
     Si diceva che Tra due mari, il romanzo più felice, arioso e composito di Abate, costituisce una sterzata. Non solo per le questioni già riassunte, ma anche perché, dopo due narrazioni così riuscite ma ancora – in qualche punto – quasi frenate, alla terza prova Abate ha lasciato liberamente frondeggiare storie e personaggi accattivanti, ha accumulato sorprese, snodi narrativi imprevisti eppure ben calibrati in uno studiatissimo gioco di equilibri.
     Tutto il testo è strutturato sul tema del viaggiare. Da due viaggi muove tutta la vicenda: quello ottocentesco di Dumas e del suo amico pittore Jadin, replicato da quello novecentesco di Hans e Giorgio, segnato dalla luce e dalle rondini, da un infinito sentimento di libertà (viaggio giovanile a sua volta replicato in quello senile, che porterà alla morte dei due). E sui tragitti Germania-Calabria di Florian e dei suoi familiari sono scanditi i capitoli del libro: viaggi invernali in una Calabria innevata e riscaldata dai fuochi delle tradizioni natalizie, ma soprattutto in un’abbagliante Calabria estiva, fitta di boschi pronubi e di sensualità. Viaggiano i personaggi, viaggiano anche le narrazioni, sempre sotto il segno dell’oralità. Il ricordo della sosta di Dumas, infatti, è affidato meno al romantico scrigno profumato di bergamotto che ai racconti tramandati all’interno della famiglia Bellusci e dei quali la madre di Florian s’è fatta appassionata vestale.
     Si diceva che anche in Tra due mari il retroterra arbëresh si fa sentire, impercettibilmente, nella possibilità che forse un’epica sia ancora oggi possibile: non nelle forme, che sanno tutte le scaltrezze novecentesche della manipolazione dell’intreccio, delle voci, dei punti di vista; ma almeno nella sostanza residua, nel nocciolo ingenuo e fascinoso di un mondo che guarda al passato come patrimonio di archetipi ancora riproponibili – in qualche arduo modo - nel presente. Se La moto di Scanderbeg poteva essere «un'epica minore dove si narra l'antieroica impresa di sopravvivere»
14, Tra due mari segna un passaggio ulteriore, che mi pare, tutto sommato, un progresso: un’epica che va oltre la mera sopravvivenza, nella dimensione progettuale dell’utopia, rinsaldata e resa possibile dalla staffetta generazionale nonno-nipote. Solo che questa staffetta rimuove la presenza del padre: Klaus, il padre di Florian, è un testimone muto, sorridente, impacciato, affettuoso ma sostanzialmente estraneo al mondo calabrese che è riuscito, col richiamo potente dei miti, a risucchiare il ragazzo tedesco. Tanto che l’accordo finale tra nonno e nipote finisce per essere, in modo forse fin troppo ottimistico, un modo di risolvere più laceranti conflitti di natura psicologica, le cui tracce sono però l’ennesima ricchezza.
     Senza parere, ché apparentemente il passo narrativo di Abate è felice della pura fabulazione, viene fuori da Tra due mari una potente rappresentazione dell’incomunicabilità fra padri e figli maschi: se l’accordo regna sovrano fra Giorgio Bellusci e le due figlie femmine, e tra Florian e la madre, il rapporto fra Hans Heumann e il figlio Klaus è dolorosamente fallimentare. Un padre assente per eccesso di irrequieta vitalità, un figlio che si chiude nel silenzio, nell’oscuro lavoro impiegatizio. Klaus è l’uomo che porta in faccia «il sorriso finto buono di chi teme gli altri e la vita», che guarda timidamente un padre troppo ingombrante: nemmeno la propria paternità gli ha permesso di superare questo enorme bisogno di padre, di essere gradito ad un padre che - quando Klaus gli mostra, orgoglioso, un suo saggio pubblicato da un’importante rivista americana -, non trova di meglio che deridere la serietà della rivista, parlando di se stesso, come sempre.
     E quando anche un personaggio secondario, come qui Klaus, riluce di tale verità, bene, questo è il segno che siamo di fronte ad un grande romanzo.

[1] Il ballo tondo, romanzo, Marietti, 1991 (poi, in edizione rivista, Fazi, 2000); Il muro dei muri, racconti, Argo, 1993; Terre di andata, poesie, Argo, 1996; La moto di Scanderbeg, romanzo, Fazi, 1999; Tra due mari, romanzo, Mondadori, 2002.
[2]
Vincenzo Consolo, Abate e la metafora del Meridione, “Il Quotidiano”, 21 settembre 2001.
[3]
«Fino a sei anni sapevo parlare solo l’arbëresh. A scuola, come quasi tutti gli arbëreshë, ho poi subìto una scolarizzazione esclusivamente in lingua e cultura italiana, cioè straniera, mentre a casa e con gli amici, nel vicinato, per le strade del paese, continuavo a parlare quella che noi chiamiamo “la lingua del cuore”. L'altra, la lingua che parlavano i maestri, prima, i professori poi, e infine i datori di lavoro, era “la lingua del pane”: importante, certo, ma non radicata dentro come la lingua arbëresh. Tant’è che la scelta, all'inizio forzata e poi sempre più consapevole, di scrivere in italiano l'ho vissuta come una sorta di tradimento nei confronti dell’arbëresh» (Carmine Abate, Storie di germanesi, “L’Indice”, dicembre 2000).
[4]
Ivi.
[5]
Ivi.
[6]
Ivi.
[7]
V.Consolo, art. cit.
[8]
L’autore ha qui reinventato fantasticamente una traccia storica autentica, ancorché labilissima, del passaggio di Dumas in Calabria, rinvenuta attraverso gli studi dell’antropologo Vito Teti.
[9]
Inevitabile pensare – leggendo Abate  a García Márquez di fronte alla presenza di elementi magici, al ricorrere della coralità (che si spiegano però anche con ragioni più intrinseche alla cultura originaria del Nostro) e soprattutto di fronte alla presenza di un gesto passionale grottescamente spropositato come il ferimento del maestro Bevilacqua nel Ballo tondo; il motivo della morte ricorrerà in Tra due mari in modo ben altrimenti serio.
[10]
Scrive l’autore a margine del suo primo romanzo: «Come Costantino, il protagonista di questo romanzo, sono affascinato dalle rapsodie: sono storie tutta polpa, veloci e leggere, piene di metafore semplici ma efficaci» (Il ballo tondo, Fazi, 2000, p.215).
[11]
Ivi, p.194.
[12]
Tra due mari, Mondadori, 2002, p.9.
[13]
Non va si può tacere l’impressione che attualmente Abate sia - vivaddio! - uno dei pochissimi narratori italiani capace di rappresentare l’amore anche come gioia dei corpi, il sesso come dimensione gioiosa e vitalistica, senza alcuna implicazione sofistica, grottesca o cyber-ansiosa.
[14]
Francesco Roat, recensione a La MotoScanderbeg, “L’Indice”, maggio 1999.