Non
credo esista, attualmente, un narratore italiano che meglio di Carmine Abate
abbia saputo rendere la sua scrittura un crocevia di culture, un luogo dove
s’incontra l’altro nella sua pura essenza, che è linguistica, e nella
sua ricchezza interiore, che è memoriale.
Solo
un altro scrittore italiano mi pare sappia realizzare un tale fecondo
incrocio di culture diverse nel crogiuolo della lingua e nel fuoco
dell’ispirazione, ma è un poeta, un grande maestro, Franco Loi, che scrive
in un idioma di base milanese ma arricchito dagli echi di quei dialetti che
sono stati portati nella metropoli dalle diverse ondate migratorie.
Entrambi questi scrittori collocano i loro testi ad un
livello diverso rispetto all’esempio iperletterario del mélange
plurilinguistico o a quello del confronto binario lingua-dialetto: nei libri
di Abate1 all’intersezione linguistica fra italiano, arbëresh (la
lingua parlata nelle enclaves albanesi d’Italia), calabrese, tedesco
e “germanese” corrisponde una forte coscienza antropologica delle diverse
appartenenze culturali e del loro originale ed inevitabile mescolarsi in
un’entità nuova e diversa, più ricca perché meticcia ma anche più dolorosa
perché frutto «di smarrimento culturale, di crisi e di sospensione di
identità»2, di conflitti con gli altri e con se stessi, con l’altro e
con l’altro che è in noi.3
«Le storie che mi ronzano in testa continuo a sentirle
in una Babele di lingue: l'arbëresh, che è la lingua in cui penso e
sogno, l'italiano della mia scolarizzazione, il calabrese, il tedesco, il
germanese, cioè la lingua ibrida degli emigrati; e poi le parole e i modi di
dire dei tanti luoghi in cui ho vissuto. Perciò sono costretto, di storia in
storia, a reinventare una mia lingua, stando attento a non perdere la
musicalità delle lingue e delle storie che ho dentro».4
Abate ha piena coscienza di tali fenomeni e delle
intrinseche possibilità che essi offrono: «Lo scrivere in una lingua diversa
dalla madrelingua ha anche un vantaggio, soprattutto per chi come me scrive
su temi come l'emigrazione, le minoranze: un certo distacco dalla materia
trattata, una specie di filtro capace di eliminare le scorie tradizionali
più inflazionate: la nostalgia lamentosa, la denuncia scontata. Questa
lingua-distanza è per me la chiave per rientrare nei miei luoghi o
raccontare i miei personaggi arbëreshë o germanesi, attraversati più o meno
consapevolmente dal plurilinguismo e dal multiculturalismo».5
Ma la resa narrativa di tale consapevolezza culturale
non ha nulla di intellettualistico, innanzitutto perché ha origine
nell’esperienza personale dell’autore: «Ho cominciato a scrivere le mie
storie per un motivo ben preciso: volevo denunciare l'ingiustizia della
costrizione a emigrare. E naturalmente parlavo di situazioni vissute in
prima persona: a quattro anni avevo visto partire mio padre per la Francia,
con un contratto in tasca da minatore, e l'anno dopo per la Germania, dove è
rimasto venticinque anni, prima da solo, poi con mia madre, mentre io facevo
la spola tra Amburgo e Carfizzi. Dopo la laurea, a ventun anni, sono stato
costretto anch'io a stabilirmi in Germania per motivi di lavoro, e ho
vissuto in prima persona i problemi del vivere tra più mondi e più lingue,
cogliendone però anche gli aspetti positivi».6
Del resto, il piccolo grande miracolo della sua
scrittura sta proprio nella resa “spontanea” e sorgiva di un’affettività
assai passionale (che può perfino sfiorare il mélo) e di un istinto
narrativo che affonda le sue radici nella ricca narratività popolare
dell’epopea. Tutto ciò è supportato - e si tratta certamente di un
importante valore aggiunto – da un’indefettibile consapevolezza politica di
quello che è, riassume da par suo Vincenzo Consolo, «il problema o il dramma
del nostro tempo, in questo nostro contesto occidentale: l'obbligo della
cancellazione del passato, di ogni memoria, per potere vivere nel presente»7.
La risposta di Abate è, polemicamente, proprio il recupero tenace della
memoria, dell’identità arbëreshë necessariamente filtrata dalla nuova
esperienza di chi è rimasto in Calabria o di chi è emigrato in Germania: ma
non si tratta di un recupero fine a se stesso, anzi i personaggi-portavoce
che riescono a realizzare tale sintesi lo fanno per riproporre con rinnovato
entusiasmo nuove scommesse esistenziali, pur senza ignorare le
contraddizioni del presente.
Succede perciò che le frasi o le parole in tedesco, in
arbëresh, in calabrese o in “germanese” si inseriscano morbidamente nel
tessuto linguistico che resta, com’è naturale, a dominante italiana. Senza
stridori voluti, senza compiacimenti localistici, senza ammiccamenti
folkloristici. Con grande naturalezza, in modo credibile: probabilmente
perché alla base di tutto stanno, nella vita di Abate, dialoghi e narrazioni
autentiche, nenie e rapsodie ascoltate da bambino, vivendo in un mondo che
conosceva spontaneamente la dimensione del vicinato, entro famiglie ampie e
a struttura quasi patriarcale.
Avviciniamoci alle storie narrate da Abate, con
l’avvertenza che se Il ballo tondo e La moto di Scanderbeg possono essere
facilmente visti come un dittico, il “dittico di Hora” (un trittico, in
realtà, se aggiungessimo i racconti del Muro dei muri, spesso cartoni
preparatori di episodi o atmosfere dei romanzi), Tra i due mari costituisce
una svolta nell’itinerario narrativo del Nostro.
Nel Ballo tondo si racconta la storia di una famiglia,
attraverso l’ottica narrativa del bambino Costantino Avati: il padre,
Francesco detto il Mericano, impetuoso e malinconico, è emigrato in Germania
dalla nativa Hora (toponimo sostitutivo del paese nativo dell’autore,
Carfizzi); lo aspettano in Calabria la madre con Orlandina e Lucrezia, le
sorelle fascinose ed inquiete di Costantino, e il nonno, nani Lissandro,
disincantato ma saggio, emblema occiduo di un “passato assoluto” che pare
destinato a tramontare (e simbolo ancora più significativo di questo mondo è
un suo amico, il leggendario rapsodo Luca Rodotà). Mentre Orlandina va sposa
ad un bravo giovane trentino che la porta con sé fra i monti e i meli, il
ragazzo è naturalmente proteso verso il futuro ma è anche attirato dal
passato mitico degli arbëreshë, rafforzato dalla stima del maestro Carmelo
Bevilacqua, che è innamorato di Lucrezia ma anche del patrimonio folclorico
di Hora; presto Costantino conoscerà l’amore, nella persona della sensuale e
fascinosa Isabella. Sullo sfondo, l’andirivieni dei “germanesi”, l’amore
tragicomico di Lucrezia e del maestro, le leggende e le tradizioni secolari:
le rapsodie, il ballo tondo, l’aquila a due teste, i riti natalizi.
Nella Moto di Scanderbeg il confronto tra passato e
presente si politicizza nella figura del padre del protagonista, Giovanni
Alessi, in fuga da Hora in Germania dove ha raggiunto Claudia, che lavora da
giornalista e, indipendente e felice, ha giurato di rompere con il passato
calabrese. Il padre di Giovanni, soprannominato Scanderbeg come l’antico
eroe della resistenza albanese ai turchi (cioè «Scanderbeg del Tempo
Grande»), in sella alla sua inseparabile moto Guzzi Dondolino era diventato,
nell’immediato dopoguerra, il leader comunista delle rivolte contadine nel
suo territorio, prima di morire per un’assurda scommessa, con grande
soddisfazione dei maggiorenti locali. La figura indomita ed appassionata di
Scanderbeg rivive nel ricordo di Giovanni, della madre Lidia e dello zio, e
s’intreccia con la presenza del fiabesco Stefano Santori, il ragazzo «dagli
occhi di calamita», il veggente che ritorna nella vita adulta di Giovanni
per costituire un ponte tra passato e futuro.
In Tra due mari c’è ancora la Calabria, c’è ancora la
Germania, ma manca la dimensione arbëreshë. Eppure, sottotraccia, essa c’è
ancora. È vero che il romanzo non è ambientato più ad Hora, ma in un altro
paese altrettanto piccolo e povero, collocato fra Ionio e Tirreno, dove si
fermò nel XIX secolo Alexandre Dumas, alloggiando alla locanda Fondaco del
Fico, e scrivendone nel suo diario di viaggio, che viene custodito come una
reliquia dai discendenti del locandiere Bellusci8. La locanda fu distrutta
dalle truppe regie inviate a reprimere il brigantaggio: una ferita non
rimarginata, testimoniata da un rudere imponente. Intorno a questo testimone
muto s’incardina, in pieno Novecento, il sogno del settantenne Giorgio
Bellusci che vuol costruirvi un moderno albergo. Se nei romanzi di Hora le
controspinte all’immobilismo e alla rinuncia erano tutte interne al
microcosmo arbëresh, nutrite di inerzia e di scetticismo, qui appaiono le
remore storiche di tutta la regione nella loro realtà più violenta: in una
parola, appare la ’ndrangheta, che vuole imporre a Giorgio Bellusci la legge
del “pizzo”. Ma l’uomo si ribella, uccide il mafioso che lo minaccia e lo
appende ad un gancio della sua macelleria. Ne ricaverà otto anni di carcere
ma non abbandonerà il suo sogno, che assumerebbe contorni retoricamente
titanici se egli, scontata la pena, non avesse l’intelligenza di associare a
sé energie nuove: il nipote Florian, figlio della figlia e di un mite
bancario tedesco, nato e cresciuto ad Amburgo e dunque tedesco a tutti gli
effetti.
Il ragazzo, che è poi l’io narrante, fatica a capire il
sogno del nonno, verso il quale, anzi, manifesta fin da bambino una sorda
ostilità che gradualmente si trasforma in ammirazione e, infine, in
condivisione del progetto. È aiutato, in questo, dall’amore di Martina,
splendida ragazza nella quale ritrova la solarità di tutte le donne della
sua famiglia. In questo orizzonte di positività femminile, sbiadiscono le
figure maschili, il padre Klaus e lo zio materno Bruno, ad eccezione del
nonno e del suo amico di tutta una vita: il fotografo tedesco Hans Heumann,
che nell’immediato dopoguerra lo portò con sé in un memorabile viaggio di
gioventù alla scoperta di una Calabria arcaica da immortalare con
l’obiettivo. Questo fotografo, diventato una celebrità internazionale, è
anche il nonno paterno di Florian, e avrà un ruolo decisivo nella sospirata
riedificazione del Fondaco del Fico. Il romanzo però non ha conclusione del
tutto lieta: l’albergo sarà sì ricostruito con successo ma la vendetta della
’ndrangheta raggiungerà Giorgio e il suo amico Hans.
Basta questa rapida ricapitolazione dei tre romanzi per
notare come Abate – soprattutto nel “dittico di Hora” - si muova agevolmente
in una dimensione epica che sembrava quasi negata alla narrativa
contemporanea occidentale, e pareva appannaggio forse soltanto di contesti
antropologici ancora relativamente pre-moderni (si pensi all’epica
latinoamericana o centroamericana - e non solo ai grandi maestri del
“realismo magico”9 ma anche alla poematicità caraibica di Derek Walcott - o a
certa narrativa africana o asiatica di lingua inglese).
Questa efficace “scelta dell’epos” è agevolata dalla
sopravvivenza nella cultura arbëreshë di rapsodie10 e miti epicamente
atteggiati, nonché di figure magico-fiabesche e soprattutto dalla
fondamentale dimensione del “vicinato”, così spesso evocata dai personaggi
di Abate. Che però, segno di notevole maturità dialettica, non restano
prigionieri dell’incantamento epico, ma sanno lucidamente scorgerne i
limiti, le angustie, le ristrettezze. Tanto da arrivare a deprecare «la
soffocante sensazione di essere circondato da futuri fantasmi, da finte
aquile bicipiti, da promesse cantate e ripetute»11. Non sarà allora un caso se
a Tra due mari, che si colloca fuori dal dittico più propriamente epico,
manca la dimensione mitico-favolistica, solo parzialmente presente nella
tenace fedeltà alle memorie familiari della stirpe Bellusci, simboleggiate
dallo scrigno contenente il diario di viaggio di Dumas. D’altronde, nel
gioco di simmetrie costruttive che si può scorgere dietro le intelaiature
narrative di Abate, esistono dei personaggi che fanno da contrappeso in
quanto portatori di razionalità: il maestro Carmelo Bevilacqua nel Ballo
tondo, la madre di Florian in Tra due mari.
Ma l’elemento decisivo che rende ancora possibile la
dimensione epica è l’adozione di un punto di vista narrativo infantile:
carta che Abate gioca in modo smaliziato, rendendola dominante nel Ballo
tondo, ma facendola emergere con intelligenza anche nella Moto di Scanderbeg
e in Tra due mari (dove sembra quasi che si alluda a privilegi e limiti di
tale ottica fin dall’incipit, diretto ed efficace come in tutti i testi di
Abate: «Che ne sapevo di lui? Un giorno di luglio fu arrestato e sparì dalla
mia vita per anni, senza che nessuno si degnasse di raccontarmi la sua
storia. Ero un bambino. Quel poco che sapevo erano bugie, col tempo le
dimenticai.»12). Derivano dall’ottica infantile altri due elementi
importanti: la deformazione straniante a cui vengono sottoposti fatti e
individui della realtà (si vedano il personaggio di Viatrice delle Fate nel
Ballo tondo e l’arrivo dei “teatristi”, i sogni di Giovanni e il ragazzo
«dagli occhi di calamita» nella Moto di Scanderbeg) e la naturalezza con cui
vengono presentati tòpoi fiabeschi come i boschi, gli oggetti
magico-simbolici (la Guzzi Dondolino o il quaderno di Dumas), i tesori
nascosti (si veda il racconto Il tesoro di Scanderbeg nel Muro dei muri), i
luoghi segreti (il Castello del Piccolo nel Ballo tondo, la grotta nascosta
nella Moto di Scanderbeg, la casa della cugina in Tra due mari – anche se quest’ultima assolve poi la precisa funzione di luogo degli incontri erotici
fra i due adolescenti13).
Peraltro, la ricorrenza tematica è nei tre romanzi di
Abate il segno di una continuità, della fedeltà ad un’ispirazione genuina ed
originale. Elenco rapidamente alcuni temi topici: le figure genitoriali
(padri o nonni) sono caratterizzate dall’amore contrastato che infine
trionfa, da un’incontenibile furia costruttiva (il Mericano che vuole
ricostruire il Castello del Piccolo; la battaglia sindacale di “Scanderbeg”;
l’utopica riedificazione del Fondaco del Fico), da una strenua fedeltà alle
amicizie giovanili (Nani Lissandro e Luca Rodotà, Giorgio e Hans), dal forte
senso della giustizia (di “Scanderbeg” e Giorgio Bellusci). I giovani, figli
o nipoti, testimoni di queste vicende, sono colti in fasi di cambiamento
(dall’infanzia all’adolescenza o dall’adolescenza alla maturità) e la loro
Bildung si compie nel segno di una grande serietà di fondo, che dà
importanza agli appuntamenti basilari della vita (gli esami scolastici, il
primo lavoro); partecipano della cultura dei progenitori grazie alla
sopravvivenza affascinante della cultura orale (le rapsodie, i racconti dei
nonni e delle madri, la leggenda familiare del Fondaco del Fico); completano
la loro formazione nell’incontro con ragazze passionali e per nulla
subalterne, le cui scelte avranno spesso valore di svolta, e che replicano,
in tal senso, il protagonismo di madri o nonne altrettanto forti e generose.
Si diceva che Tra due mari, il romanzo più felice,
arioso e composito di Abate, costituisce una sterzata. Non solo per le
questioni già riassunte, ma anche perché, dopo due narrazioni così riuscite
ma ancora – in qualche punto – quasi frenate, alla terza prova Abate ha
lasciato liberamente frondeggiare storie e personaggi accattivanti, ha
accumulato sorprese, snodi narrativi imprevisti eppure ben calibrati in uno
studiatissimo gioco di equilibri.
Tutto il testo è strutturato sul tema del viaggiare. Da
due viaggi muove tutta la vicenda: quello ottocentesco di Dumas e del suo
amico pittore Jadin, replicato da quello novecentesco di Hans e Giorgio,
segnato dalla luce e dalle rondini, da un infinito sentimento di libertà
(viaggio giovanile a sua volta replicato in quello senile, che porterà alla
morte dei due). E sui tragitti Germania-Calabria di Florian e dei suoi
familiari sono scanditi i capitoli del libro: viaggi invernali in una
Calabria innevata e riscaldata dai fuochi delle tradizioni natalizie, ma
soprattutto in un’abbagliante Calabria estiva, fitta di boschi pronubi e di
sensualità. Viaggiano i personaggi, viaggiano anche le narrazioni, sempre
sotto il segno dell’oralità. Il ricordo della sosta di Dumas, infatti, è
affidato meno al romantico scrigno profumato di bergamotto che ai racconti
tramandati all’interno della famiglia Bellusci e dei quali la madre di
Florian s’è fatta appassionata vestale.
Si diceva che anche in Tra due mari il retroterra
arbëresh si fa sentire, impercettibilmente, nella possibilità che forse
un’epica sia ancora oggi possibile: non nelle forme, che sanno tutte le
scaltrezze novecentesche della manipolazione dell’intreccio, delle voci, dei
punti di vista; ma almeno nella sostanza residua, nel nocciolo ingenuo e
fascinoso di un mondo che guarda al passato come patrimonio di archetipi
ancora riproponibili – in qualche arduo modo - nel presente. Se La moto di Scanderbeg poteva essere «un'epica minore dove si narra l'antieroica impresa
di sopravvivere»14, Tra due mari segna un passaggio ulteriore, che mi pare,
tutto sommato, un progresso: un’epica che va oltre la mera sopravvivenza,
nella dimensione progettuale dell’utopia, rinsaldata e resa possibile dalla
staffetta generazionale nonno-nipote. Solo che questa staffetta rimuove la
presenza del padre: Klaus, il padre di Florian, è un testimone muto,
sorridente, impacciato, affettuoso ma sostanzialmente estraneo al mondo
calabrese che è riuscito, col richiamo potente dei miti, a risucchiare il
ragazzo tedesco. Tanto che l’accordo finale tra nonno e nipote finisce per
essere, in modo forse fin troppo ottimistico, un modo di risolvere più
laceranti conflitti di natura psicologica, le cui tracce sono però
l’ennesima ricchezza.
Senza parere, ché apparentemente il passo narrativo di
Abate è felice della pura fabulazione, viene fuori da Tra due mari una
potente rappresentazione dell’incomunicabilità fra padri e figli maschi: se
l’accordo regna sovrano fra Giorgio Bellusci e le due figlie femmine, e tra
Florian e la madre, il rapporto fra Hans Heumann e il figlio Klaus è
dolorosamente fallimentare. Un padre assente per eccesso di irrequieta
vitalità, un figlio che si chiude nel silenzio, nell’oscuro lavoro
impiegatizio. Klaus è l’uomo che porta in faccia «il sorriso finto buono di
chi teme gli altri e la vita», che guarda timidamente un padre troppo
ingombrante: nemmeno la propria paternità gli ha permesso di superare questo
enorme bisogno di padre, di essere gradito ad un padre che - quando Klaus
gli mostra, orgoglioso, un suo saggio pubblicato da un’importante rivista
americana -, non trova di meglio che deridere la serietà della rivista,
parlando di se stesso, come sempre.
E quando anche un personaggio secondario, come qui
Klaus, riluce di tale verità, bene, questo è il segno che siamo di fronte ad
un grande romanzo.
Il ballo tondo, romanzo, Marietti, 1991 (poi, in edizione rivista,
Fazi, 2000); Il muro dei muri, racconti, Argo, 1993; Terre di
andata, poesie, Argo, 1996; La moto di Scanderbeg, romanzo,
Fazi, 1999; Tra due mari, romanzo, Mondadori, 2002.
Vincenzo
Consolo, Abate e la metafora del Meridione, “Il Quotidiano”, 21
settembre 2001. «Fino a
sei anni sapevo parlare solo l’arbëresh. A scuola, come quasi tutti
gli arbëreshë, ho poi subìto una scolarizzazione esclusivamente in
lingua e cultura italiana, cioè straniera, mentre a casa e con gli amici,
nel vicinato, per le strade del paese, continuavo a parlare quella che noi
chiamiamo “la lingua del cuore”. L'altra, la lingua che parlavano i maestri,
prima, i professori poi, e infine i datori di lavoro, era “la lingua del
pane”: importante, certo, ma non radicata dentro come la lingua arbëresh.
Tant’è che la scelta, all'inizio forzata e poi sempre più consapevole, di
scrivere in italiano l'ho vissuta come una sorta di tradimento nei confronti
dell’arbëresh» (Carmine Abate, Storie di germanesi,
“L’Indice”, dicembre 2000). Ivi.
Ivi.
Ivi.
V.Consolo, art. cit. L’autore ha qui
reinventato fantasticamente una traccia storica autentica, ancorché
labilissima, del passaggio di Dumas in Calabria, rinvenuta attraverso gli
studi dell’antropologo Vito Teti. Inevitabile pensare – leggendo Abate a
García Márquez di fronte alla presenza di elementi magici, al ricorrere
della coralità (che si spiegano però anche con ragioni più intrinseche alla
cultura originaria del Nostro) e soprattutto di fronte alla presenza di un
gesto passionale grottescamente spropositato come il ferimento del maestro
Bevilacqua nel Ballo tondo; il motivo della morte ricorrerà in Tra
due mari in modo ben altrimenti serio.
Scrive l’autore a margine del suo primo
romanzo: «Come Costantino, il protagonista di questo romanzo, sono
affascinato dalle rapsodie: sono storie tutta polpa, veloci e leggere, piene
di metafore semplici ma efficaci» (Il ballo tondo, Fazi, 2000, p.215).
Ivi, p.194.
Tra
due mari, Mondadori, 2002, p.9.
Non va si
può tacere l’impressione che attualmente Abate sia - vivaddio! - uno dei
pochissimi narratori italiani capace di rappresentare l’amore anche come
gioia dei corpi, il sesso come dimensione gioiosa e vitalistica, senza
alcuna implicazione sofistica, grottesca o cyber-ansiosa.
Francesco Roat, recensione a
La
MotoScanderbeg,
“L’Indice”, maggio 1999.