Narrativa

Parigi 2006

Stranieri al Sud: per una ridefinizione delle frontiere

  di Angela Biancofiore


Non avete mai visto migrar patrie? Noi dell'Africa sì,
s'alzano con il fumo degli incendi, si spargono a concime.
 (Erri De Luca, Solo andata, 2005)

 

Fin dagli inizi degli anni ’90, la realtà delle nuove migrazioni entra a far parte del nostro universo letterario. L’esperienza della migrazione, del soggetto migrante, tra due patrie e tra varie lingue, entra in una narrazione e diventa materia di poesia o di romanzo.

La letteratura e la cultura italiana si trasformano progressivamente dinanzi al fenomeno di una letteratura migrante, poiché numerosi autori scelgono ormai da alcuni anni di scrivere in lingua italiana, scelgono di dire le proprie esperienze esistenziali in una lingua altra, in una cultura altra.

Gli scrittori migranti portano alla nostra letteratura il loro sguardo « estraneo », esterno e interno al tempo stesso : l’apporto più consistente è questo sguardo nuovo sul nostro presente.

La scrittura è nutrita dall’esistenza, non è mera finzione. Lo scrittore migrante traspone la propria esperienza esistenziale nella  lingua altra, si mette in questione e ci mette in questione. E’ portatore di diversità e al tempo stesso aspira alla continuità dell’esperienza esistenziale.

Una letteratura che parla dell’incontro di mondi che spesso non sono in situazione di dialogo, ma sono in aperto conflitto.

Un nuovo soggetto della scrittura viene alla luce, inserendosi in una storia letteraria che è fatta di migrazioni.

 L’Italia è stata innanzitutto paese dell’emigrazione, Carmine Abate e Erri De Luca lo ricordano nelle loro opere. Nessuno poteva immaginare gli sbarchi dei clandestini di oggi. Una sola eccezione : Pier Paolo Pasolini, che profetizza l’arrivo massiccio di immigrati negli anni Sessanta, allorquando nulla lasciava prevedere un tale evento :

  

Alì dagli Occhi Azzurri

uno dei tanti figli di figli,

scenderà da Algeri, su navi

a vela e a remi. Saranno

con lui migliaia di uomini

coi corpicini e gli occhi

di poveri cani dei padri

sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini,

e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua.

Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali.

Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,

a milioni, vestiti di stracci

asiatici, e di camice americane.

subito i Calabresi diranno,

come i malandrini a malandrini:

"Ecco i vecchi fratelli,

coi figli e il pane e il formaggio!"

[…]

Anime e angeli, topi e pidocchi,

col germe della Storia Antica,

voleranno davanti alle willaye[1].

 

 

Fraternità degli umili ? Il poeta si sbaglia – lo riconoscerà alcuni anni dopo,  in una delle sue ricorrenti « abiure » –  sul ruolo politico e sul carattere rivoluzionario di una tale “invasione”. Eppure ne prevede la portata, la dimensione storica eccezionale.

Una vera epopea si sta svolgendo alle porte dell’Europa – è quanto afferma Erri De Luca – , l’epopea degli umili che cercano un varco nelle muraglie erette a difesa dell’Occidente. Alcuni anni fa, Umberto Eco definiva il movimento di popolazioni come « migrazione » e non semplicemente « emigrazione », proprio per la dimensione planetaria e epocale del fenomeno (Athanor 4, Migrations, 1993). Nessuna legge, nessun dispositivo di sicurezza potrà impedire lo spostamento di masse di popolazioni causato dalla fame (per la desertificazione di una parte dell’Africa), dalle guerre (la guerra nei Balkani, ad esempio, ha provocato un importante flusso migratorio verso l’Italia), da fenomeni politici internazionali (il crollo del muro di Berlino) o conflitti locali e durevoli (la mai risolta questione del popolo Kurdo)…

Le nostre coste, soprattutto la Puglia, la Calabria e la Sicilia, stanno vivendo da alcuni anni e con un ritmo serrato l’arrivo di popolazioni straniere. La situazione è carica di tensione, sia con le forze dell’ordine, sia con le popolazioni locali che non sono pronte ad accogliere un tale flusso migratorio in regioni spesso caratterizzate dalla povertà e dalla disoccupazione. Una storia di sbarchi, di naufragi, di silenzi carichi di responsabilità (come per la tragedia di Portopalo in Sicilia[2]). Così il Sud Italia è diventato una sorta di sfumatura del Nord, come ci spiega Erri De Luca :

 

 Nel mondo c'è più sud che nord. Detto così è come se uno affermasse che i numeri dispari sono di più dei numeri pari. Però è un fatto che l'Equatore, il largo parallelo equidistante dai poli, non è mai stato discrimine efficace. Il sud del mondo lo ha scavalcato di slancio, si è spinto oltre il tropico del cancro fino a risalire tutta l'Africa. Per ora si è assestato sulla sponda meridionale del Mediterraneo.

Un tempo anche noi nati sotto il Volturno ci dicevamo del sud. […].

Intanto le nostre città si popolano di un sud mobile. Le stazioni, le prigioni, i ponti, i sottopassaggi e i semafori ci mostrano a domicilio il sud. Noi non lo siamo più. Nominarci tali oggi è abuso di latitudine altrui e appropriamento di geografia indebita. […]

I sette prepotenti economici della terra che tengono a Napoli il loro comitato d'affari, dimostrano definitivamente che siamo diventati una sfumatura del nord  [3].

 

Il « sud mobile » si muove all’interno delle nostre città, laddove si creano invisibili frontiere : ormai il Sud Italia è il nuovo Nord per coloro che vengono dal Sud.

De Luca affronta, nelle sue recenti creazioni letterarie (L'ultimo viaggio di Sindbad, 2003, e Solo andata, 2005), la questione dell’immigrazione di clandestini, che implica una riflessione sul problema del conflitto culturale. L’incontro-scontro con la cultura altra provoca un sentimento di chiusura e di difesa dei propri « confini » culturali ; il soggetto che vive in una situazione di « interculturalità » stabilisce un’interazione con l’altro, altrimenti si tratterebbe di una società « multiculturale », mera giustapposizione di comunità che non hanno nessun rapporto sostanziale fra loro.

La società multiculturale è una delle cause dell’insorgere del « razzismo » di cui abbiamo numerosi esempi in un’Italia che si abitua male allo statuto di paese di accoglienza. Un’Italia che non guarda alla propria storia recente e alla diaspora di emigrati italiani partiti per ragioni prevalentemente economiche, verso le Americhe e i paesi del Nord Europa alla fine dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento.

Lo scrittore migrante parte dalla propria esperienza, sia esso straniero o italiano ; egli fa entrare nella scrittura la sua situazione di sradicamento e i tentativi di ricostruzione del soggetto nella nuova condizione di immigrato.

La scrittura scaturisce da una strozzatura, da un « goulot d’étranglement », per usare l’espressione di Gilles Deleuze parlando della creazione. L’opera si costruisce su questi salti mostruosi all’interno di un’esistenza individuale che non ha nulla di lineare e che invece comporta dei momenti cruciali di « non-ritorno »  (cfr. il romanzo di Ron Kubati, Va e non torna). La condizione del migrante apre degli spazi di grande angoscia : la paura di « perdere la presenza », tema centrale negli studi etnologici di De Martino, il timore di non rivedere la famiglia, la perdita dell’identità, del proprio passato, la non appartenenza a un gruppo, a una struttura sociale,  il timore di morire senza sepoltura, senza il pianto dei familiari.

Lo sguardo della critica sulle opere dei migranti ha bisogno di una trasformazione sostanziale, poiché il nuovo oggetto di studio richiede nuovi strumenti di lettura : l’analisi dei testi non può limitarsi ad una prospettiva puramente letteraria ma deve tener conto degli studi di antropologia, di psicologia sociale, di sociologia. In particolare, ciò che dovrebbe subire una metamorfosi radicale è proprio la forma del pensiero critico: a questo proposito Armando Gnisci parla della necessità di « decolonizzarci da noi stessi ». Quante abitudini del pensiero ci conducono a pensare la nostra cultura come « universale » ?

Senza cadere nell’eccesso inverso, ovvero in una perdita totale della propria identità culturale, l’approccio delle opere degli scrittori migranti comporta una metamorfosi del punto di partenza della riflessione : uno sguardo aperto sul presente, su ciò che avviene, un tentativo di comprensione di fenomeni culturali complessi il cui carattere magmatico è destabilizzante e problematico poiché ci obbliga al  confronto con la storia attuale.

La prima scrittura della migrazione è stata segnata dal fenomeno dell’autobiografismo : in questo si rivela il nesso vitale e necessario tra arte e esistenza ; la narrazione di mondi, non può fare a meno del plurilinguismo ; una buona parte delle opere è orientata verso la scrittura « avventurosa » (1989-1993). La seconda generazione degli scrittori migranti lavora in un contesto diverso poiché maggiormente integrata da un punto di vista socio-economico, politico e culturale. Anche la padronanza della lingua, in questo caso dell’italiano, è significativa così come l’idea di appartenenza alla società italiana multietnica.

La scrittura diventa un modo di appropriazione del mondo, allorquando il soggetto è alle soglie della crisi della presenza. In questo caso, l’opera letteraria diventa il campo della messa in scena dei conflitti irrisolti, della crisi linguistica e culturale ma anche del possibile inserimento in un contesto sociale e di affetti. Molto spesso è l’amore che restituisce l’abitabilità del mondo. La straniera per eccellenza, Medea nella tragedia di Euripide, non percepisce la propria estraneità solo nei momenti in cui si sente amata da Giasone. La perdita dell’amore coincide con la perdita del mondo e la conduce alla vendetta ; la perdita del legame sacro col mondo viene compensata dal rapporto erotico che acquista i caratteri della sacralità.

In fondo, siamo alle prese con l’eterna questione dell’« abitabilità » : « C’è ancora quel quieto abitare dell’uomo fra la terra e il cielo ? Domina ancora sulla terra lo spirito meditativo ? C’è ancora una patria in cui radicarsi, nel cui suolo l’uomo stia stabilmente, abbia cioè la sua dimora ? »  (Martin Heidegger).

L’abitabilità è possibile quando un luogo diventa spazio vitale per una comunità, quando il luogo, la terra, diventa spazio sacro e collettivo, e il soggetto arriva a percepire il luogo come domestico, familiare.

Nell’epoca della trasformazione planetaria del mondo e della progressiva riduzione della durata dello spostamento da un luogo all’altro, l’essere umano sarà in grado di recuperare l’atto originario del suo muoversi tra le pieghe della terra ? si chiede Paul Virilio nel suo saggio Ville panique. La terra non è ospitale se non viene in un certo senso resa abitabile dall’essere umano. La letteratura della migrazione pone la questione centrale dell’ospitalità del mondo.

Lo scrittore Carmine Abate, nato a Carfizzi (Crotone) nel 1954, italiano appartenente alla comunità arbëresh di Calabria, emigrato in Germania e nell’Italia del Nord, ha oramai una produzione letteraria notevole che si articola intorno alla questione della migrazione, dell’abitabilità e della trasformazione dei valori culturali.

 

Carmine Abate, una poetica della « hora »

 

Il mito non è favola ma storia : storia vera e non storia falsa, posta a fondamento dell'ordine mondano.

 (Raffaele Pettazzoni)

 

 

Troviamo nei romanzi di Carmine Abate il misterioso termine « HORA » che designa il paese, il villaggio di Calabria dove vivono, ritornano, sognano i suoi personaggi[4]. Lo scrittore utilizza una parola arbëresh proveniente dal greco « chora »,  cvra, che vuol dire “tratto di terra”, villaggio, paese, in greco moderno anche “nazione”. Quanti villaggi oggi in Grecia, e nelle isole dell’Egeo in particolare, si chiamano « Chora » ! Ciò significa che gli albanesi che sono giunti in Italia alla fine del Quattrocento, a causa dell’avanzata dell’impero ottomano, provenivano dai confini con la Grecia e che la loro lingua conteneva numerosi termini greci.

Chora è anche termine filosofico, coniato da Platone nel Timeo, che designa il ricettacolo, la matrice dove è possibile l’essere e il divenire, e in cui avviene la trasformazione dei quattro elementi[5].

A proposito dell’opera di Abate, paleremo di “poetica della Chora (o Hora)”, perché fondamentalmente poetica dello spazio. La rifondazione di questo spazio è possible grazie alla consacrazione del luogo. Nel Mosaico del tempo grande, Carmine Abate evoca la migrazione degli Albanesi alla fine del XV secolo e la migrazione del 1990, in coincidenza con la grave crisi politica del paese. Quando i primi albanesi sbarcano sulle coste pugliesi per poi spostarsi fino alla Calabria, il Papas della comunità consacra il luogo con il rito ortodosso e con l’icona :

 

Il papas appoggia l'icona tra i rami di un fico selvatico; respira forte « Qui costruiremo le nostre case; lavoreremo le terre qui attorno. Le renderemo fertili…Non ci siamo persi e non lo saremo fino a quando conserveremo memoria di chi eravamo e di dove veniamo »[6] .

 

 

Il mondo deve avere un centro : la fondazione di Hora avviene intorno ad un fico selvatico. La simbologia dell’albero ne rivela significati arcaici : l’albero della vita, l’albero, come l’essere umano, ha questa doppia natura, terrestre e celeste, con le radici cerca le profondità della terra e con i rami partecipa alla natura aerea... Ernesto De Martino nel suo saggio La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, si interessa alla simbologia dell’albero perché essa è significativa nei deliri di fine del mondo, allorquando il soggetto è in preda a un sentimento di estraneità che annuncia la perdita della presenza. L’etnologo cita l’esempio del contadino di Berna fortemente traumatizzato dallo sradicamento di una quercia: « Tutto il  divenire del mondo era stato come squassato dallo sradicamento di questa quercia, e le sue radici colpite si identificano con le radici stesse della vita. L'albero come simbolo del radicamento sulla terra e dell'ascesa verso le regioni eteriche e pneumatiche, come simbolo della vita che si rinnova. […] L'albero cosmico, l'albero di vita, l'albero centro del mondo»[7]. Secondo Storch e Kulenkampff (citati da De Martino) : « All'uomo appartengono al tempo stesso due momenti : noi siamo enti legati alla terra, alla gravità terrestre, e al tempo stesso appartenenti all'aria e alla luce. Come esistenza ascendente siamo partecipi alla libertà, respiriamo nelle possibilità del futuro. Se però l’uomo non può più vivere questa emergente esistenza per il futuro […] allora il suo Dasein perde il saldo fondamento. L’elemento terrestre materno si mostra nel suo temibile aspetto di morte come abisso risucchiante »[8]

Lo spazio della hora è uno luogo strategico, all’incrocio dei venti: « questa è la collina del vento » (Il mosaico del tempo grande, p. 62). Lo spazio naturale viene investito di simbologia umana che crea lo spazio collettivo e comunitario: è il progetto comune che rende il luogo “hora”(paese), “oikos” (in greco : « casa »), spazio familiare in cui si costruisce una vita individuale e corale.

La migrazione degli antichi Albanesi è esodo : non migrazione individuale, come nelle storie di migranti del XX secolo, ma migrazione di popoli che sfuggono al nemico (gli Albanesi che fuggono dopo l’incendio del loro villaggio dinanzi all’armata turca).

Alle radici della migrazione c’è il trauma della perdita : la distruzione della hora, spazio comunitario e vitale. La nuova hora produrrà una sorta di « doppio » della prima hora, e di conseguenza tutti i personaggi principali avranno una loro ombra del passato (Antonio Damis- Jani Tista Damis, Drita-la Rossanisa).  Non vi è presenza che non rimandi al passato : colui che crea il legame tra presente e passato è Gojàri, ovvero « Boccadoro », poiché dalle sue labbra sgorga la memoria del popolo. Egli costringe gli altri a ricordare, come un richiamo doveroso alla memoria :

E finalmente mi sembrava di capire. Tessera dopo tessera, Gojàri stava disseppellendo la nostra memoria, ci costringeva a ricordare. Perché quelle storie, a ben vedere, erano sepolte dentro di noi come preziosi tesori in fondo al mare e la voce di Gojàri, le sue abili mani, le spingevano a galla. Spettava a noi ignorarle o utilizzarle a piacimento nel presente, "il tempo delle illusioni e degli inganni" lo definiva Gojàri, ma pur sempre il nostro tempo[9] .

 

Gojàri è l’artista che crea il « mosaico del tempo grande », il mosaico è opera duratura, dura più dell’affresco, e mantiene viva la memoria del tempo leggendario, la leggenda di Scanderbeg, eroe albanese che ha resistito all’avanzata dei Turchi, il più potente esercito di quell’epoca (XV secolo). L’artista, mentre crea, racconta : il dire e il fare sono indissociabili, proprio come all’inizio della celebre autobiografia di Benvenuto Cellini. La bottega, istituzione rinascimentale[10], è il luogo in cui si dicono le storie e in cui viene evocata la memoria. Si ricongiungono gli elementi separati in una rete di rinvii che costituisce la vicenda di una comunità ; ma ciò che sorprende è il fatto che chi racconta la memoria del luogo è proprio lo straniero albanese.

Antonio Damis è personaggio centrale della rievocazione, anche lui attirato dalla sua ombra del passato, sorta di richiamo irresistibile che lo costringe a partire in Albania nel tentativo di ritrovare una parte di sé e della propria cultura. In realtà, sono le ragioni sentimentali che orientano gli spostamenti del personaggio alla ricerca di Drita, la bella ballerina albanese : intorno al rapporto erotico si  costruisce l’abitabilità del mondo, per cui l’Olanda, paese verso cui Antonio e Drita fuggono, diventa il nuovo paese di accoglienza in cui sarà fondata la nuova famiglia.  Michele e Laura sceglieranno anche  loro di vivere in Olanda : il recupero della memoria arcaica non conduce quindi verso una visione nostalgica del paese, la Hora, al contrario, è « mobile », il luogo familiare viene ricreato in ogni luogo del mondo, laddove il soggetto ha il coraggio di ritrovare il proprio passato e di proiettarsi nella situazione attuale e futura. La migrazione è valore positivo, malgrado il contesto tragico da cui parte, l’identità è in divenire e si trasforma in relazione all’evoluzione dei valori culturali ; difatti, lo scrittore ribadisce : « Io sotto i miei piedi ho le mie vecchie radici e a queste ho visto crescere nuove radici ».

Se i valori si trasformano, ciò che non muta è l’unità familiare che viene preservata attraverso le generazioni.  Anche la besa, la parola data, è trasgredita poiché Antonio Damis abbandona la propria fidanzata per inseguire Drita, la ballerina.  Ed è proprio ciò che lo condurrà alla morte, poiché la madre di Rosalba, la fidanzata abbandonata, lo ucciderà. Antonio Damis è personaggio complesso, abitato da opposte tensioni, ma fatalmente proiettato verso il passato nel tentativo di ricongiungerne i frammenti.

Anche Michele, la voce narrante, sguardo giovane sull’antica storia, va verso una trasformazione dei valori senza rinnegare il legame con gli antichi. Spinto da una necessità, si laurea, come per dovere, come per sfuggire alla fatalità del lavoro contadino ; e la sua laurea è « buona come il pane », afferma suo padre. Michele è ritornato al suo paese, dopo gli studi universitari, ma non riesce ad accettare la vita del villaggio che gli appare monotona poiché senza la presenza di Laura, figlia di Antonio e Drita, la vita a Hora gli sarebbe apparsa insopportabile : «Che, a dirla tutta, [Hora] mi sembrava un posto noioso, moribondo, da cui scappare il più presto possibile. Anzi, se non fosse arrivata Laura forse sarei già partito. Sì, Hora mi pareva vivibile solo quell’estate, illuminata da una ragazza bionda che veniva da lontano » (Il mosaico…, p. 152). Ancora una volta è l’amore che crea l’abitabilità del luogo e lo rende familiare. La presenza della famiglia di appartenenza non basta, il soggetto deve misurarsi con l’Altro, l’estraneo, per poter vivere e creare uno spazio abitabile.

La migrazione è quindi un cammino senza ritorno, la memoria del passato aiuta a rifondare il presente ma non implica una riconferma degli antichi valori. Il soggetto culturale è proiettato verso nuovi mondi e questa migrazione esistenziale non è possibile se non partendo da una radice ferma e sicura : la conoscenza della storia comune.

Carmine Abate, così come altri scrittori contemporanei quali Marcello Fois, Ermanno Rea, parte da situazioni locali determinate e proietta la propria visione sul mondo, poiché oggi ciascun fenomeno particolare è immediatamente legato alla dimensione mondiale. L’uso del dialetto o delle lingue fa parte di questa attenzione verso le realtà particolari che emergono attraverso uno sguardo globale : il pluriliguismo è una necessità e viene comparato al plurilinguismo delle giovani generazioni di migranti. Così Abate descrive il proprio « plurilinguismo » originario: « Ero come un bambino marocchino costretto a spogliarsi della sua madrelingua e a imparare una lingua che gli stava stretta, la lingua italiana. »

Lo scrittore afferma : « Sono un transfuga linguistico […]  Una sorta di disertore che sceglie di scrivere in una lingua che non è la sua madrelingua.».  La sua lingua materna è l’arbëresh, l’italiano, invece, è lingua appresa a scuola che serve allo scrittore per mettere alla giusta distanza avvenimenti a volte traumatici come la migrazione e la disgregazione degli affetti familiari che essa comportava.

La situazione dell'emigrante può essere un campo fertile per la creazione.  L’esilio implica una condizione di estraneità all'impatto col diverso. Riconciliarsi con la diversità del luogo è avviare un processo di creatività, l’emigrato si fa  portatore di diversità. Per lo scrittore, ciascuna delle sue lingue erano un tutto. Ogni lingua costituisce uno sguardo diverso sulla realtà. Lo scrittore si abitua a vivere tra le lingue, cioè a vivere tra i mondi. L’apporto del calabrese e dell’arbëresh trasformano la sintassi e il lessico della lingua italiana che si sviluppa alla presenza di altri modelli linguistici e che dà origine a una lingua letteraria ricca di riferimenti ai modi di dire, ai proverbi, a una cultura contadina che sa forgiare immagini vivide e poetiche del reale. Alcuni esempi illustreranno queste riflessioni :

 Ha parlato di quel caldo sbarioso che stava infurrando la campagna come un pane sulle pietre dell'inferno (ibidem, p. 66).

Le parole gli sgorgavano come il canto di un uccello al mattino, necessarie e melodiose, quasi senza pause (ibidem, p. 18).

La laurja del mio giovinotto, intendo, una roba concreta, sostanziosa, come il pane fatto in casa nel forno a legna, non come quello comprato alla bottega che è una spugna buchi buchi, pieno d'aria (ibidem, p. 145).

Erano partiti uno dietro all’altro […] come rindinelle migratùre, loro che a parole erano attaccati alla nostra terra con la tenacia delle radici di olivastro (ibidem, p. 29).

 

La nuova lingua di Carmine Abate è uno degli elementi più importanti della sua opera di narratore. La novità di questa lingua è la sua esistenza tra diverse lingue e diverse culture, la cultura cittadina e quella contadina, la cultura dell’immigrato e quella del paese di accoglienza… E’ una lingua concreta, fisica, sensuale, che parla delle sensazioni visive, del cibo, ad esempio, elemento centrale della cultura contadina : l’immagine ricorrente delle polpette della madre di Michele rivela il legame ancestrale con il cibo e con la sua condivisione.

 

Il mito e la storia

Nella complessa e agile orchestrazione del romanzo di Abate percepiamo una tensione interna che si concretizza nel richiamo misterioso di un’ombra del passato : « Devo ricongiungermi con la mia ombra, che è là e mi aspetta da quando sono stato generato » ; queste parole sono pronunciate da Jani Tista Damis (ibidem, p. 80) che ritorna in Albania per combattere i Turchi e va incontro alla morte. Eppure, è impossibile resistere al richiamo, alla necessità interiore : « Un luogo ti può attirare come una persona » (ibidem, p. 14.).  Una voce interna che detta l’azione, anche quando si tratta dell’omicidio di Antonio : za Maurelja, l’assassina, ha agito come in trance, « come se obbedisse ad una voce anzi a un coro di voci ».

Il romanzo si sviluppa in modo polifonico, proprio come un coro di voci, anche se è Michele che racconta. Le voci emergono alla superficie del presente come spinte da una necessità irrevocabile. E’ il corpo dei personaggi il luogo di incontro di tensioni opposte e di conflitti irrisolti che  rendono fragile il suo equilibrio. Il corpo è il luogo della memoria e dell’oblio. Nella prefazione alla Fine del mondo di De Martino, Gallini e Massenzio, propongono una definizione delle funzioni della memoria e dell’oblio che può fare eco, in qualche modo,  alla scrittura di Abate :

I vissuti del proprio battito cardiaco, della stazione eretta, della prevalenza della mano destra sulla sinistra segnalano scelte culturali ancestrali, culturalmente trasmesse e quotidianamente rinnovate. Iscritta nel corpo, la stessa gestualità riproduce, rinnovandoli, saperi antichi e socializzati. La memoria - o almeno : questa memoria - necessita dell'oblio. Oblio - "felice oblio" - è possesso di un'acquisizione culturale serbata nella zona d'ombra dell'inconscio. L'inconscio è dunque l'esistenza in noi di storie collettive di cui siamo eredi e partecipi senza sapere di esserlo. Non è il buco nero dove si sprofondano le rimozioni ma piuttosto un processo cumulativo e aperto. Funziona sulla dialettica memoria-oblio. Perché se la memoria è necessaria alla trasmissione della cultura, l'oblio è altrettanto necessario ai fini della sua innovazione[11] .

 

La funzione dell’oblio è indissolubilmente legata a quella della memoria nel processo aperto di costruzione dell’identità. Le voci che emergono nella scrittura dell’autore, voci del passato e voci del presente, coro delle infinite esperienze di migranti, si fanno strada sul terreno della scrittura che assume, a tratti, un registro epico capace di aderire al racconto di una storia comune. L’incontro tra Albanesi e Arbëresh mette in crisi il legame storico-culturale tra due comunità che hanno vissuto storie diverse. L’accoglienza e il rifiuto sono le diverse fasi di questo rapporto :  « avevano le stesse storie mitiche, i canti ugualmente struggenti » (Il mosaico…, p. 44).

Al centro del « riconoscimento » della comunità il canto : il mito, etimologicamente, « racconto », non può vivere se non nelle modalità del canto, del rito e della celebrazione : la processione di Santa Veneranda unisce ancora i membri della comunità, malgrado le differenze di età e di generazione. Il mito produce una « esistenza protetta », in cui la comunità trova conferma della propria identità e al tempo stesso si protegge contro le forze irrazionali o le integra nel rito collettivo : durante la processione, una pellegrina - in realtà Rosalba -  fa irruzione, ma in realtà è irriconoscibile perché fuori di sé. Le forze irrazionali penetrano il rito collettivo che non riesce a risolvere interamente le tensioni interne alla comunità.

La religione e la lingua sono i nuclei essenziali intorno ai quali si costruisce l’antica e la nuova comunità : La bella Rossanisa apprende i riti greci della comunità arbëresh ma non dimentica il rito cattolico, e quindi continua a venerare il quadro sacro della madonna achiropita (in greco : « non dipinta da mani umane »). 

Il mito non  è rappresentazione ma storia. Esso ha una funzione protettiva e permette all’individuo e alla comunità di nascere una seconda volta. Permette di recuperare il passato non oltrepassato e di aprire il soggetto alla storicità del divenire. Secondo Ernesto De Martino : « Il mito è un modello di riassorbimento rispetto alla proliferazione storica del divenire, e un  modello di ripresa rispetto al ritorno al passato non oltrepassato; attenua la storicità, la vela, e al tempo stesso riapre verso la storicità, reintegra le alienazioni operanti nell'inconscio » [12].

Carmine Abate rivela la necessità del rituale: la processione, la festa, la condivisione del pasto, l’ascolto del racconto… Sono momenti collettivi insostituibili e necessari che aprono il soggetto alla storia comune e fondano il suo presente, entrano quindi a far parte di una complessa economia simbolica della comunità.

 

Il « tempo grande »

 

 

 Per capire veramente il presente , occorre il tempo grande della letteratura. Occorre insomma un ciclo temporale che dura secoli e sopravvive come una memoria comune, senza cui la contemporaneità si appiattisce e perde la propria forza (Michail Bachtin) .

 

 

Il tempo grande è un’espressione che esiste in arbëresh e che l’autore poi utilizza in italiano per evocare il tempo leggendario dell’epopea di Scanderbeg. Leggiamo nel romanzo ancora un’altra accezione di tempo grande :

A Hora era rimasto il più giovane di loro, Antonio Damis, l’unico che conoscesse nei dettagli la storia dell’inizio di tutto : quando era ragazzo gliela aveva raccontata suo nonno che l’aveva sentita dal proprio nonno, e giù giù « te moti i madh », nel tempo grande » (Il mosaico, p. 29).

 

E’ il tempo della continuità delle storie, tempo della « memoria comune » e della trasmissione, attraverso la voce dei nonni e non dei padri, troppo indaffarati o distrutti dal lavoro. Il tempo grande è il tempo che lascia tracce profonde :

 

Non importa quando succedono i fatti, il tempo è grande se ti lascia una traccia dentro. Per esempio una fuga senza meta, l’ombra di vento che ti insegue ovunque, oppure uno sguardo innamorato e il sapore della liquirizia, la felicità che appena la sfiori si allontana di un passo come un orizzonte dispettoso. Ecco : queste tracce, dobbiamo cercare e seguire. Queste braci vive, in cerchio, sotto uan montagna di cenere. Per andare dove, amici, non lo sa nessuno. Tu parti, questo sai, come è partito Jani Tista Damis, ignaro della meta più profonda, convinto di ritornare quando vuole. Invece si perde per sempre, e con lui il suo ricordo. Però lascia una traccia dentro Antonio Damis, un grumo duro di cocciutaggine, il sogno del ritorno (Il mosaico, p. 116).

 

 

Questa espressione esiste anche nella lingua russa e serve a indicare un’epoca marcata da un grande evento. Il filosofo russo Michaïl Bachtin la usa  per indicare un ciclo temporale che dura secoli  e grazie al quale i testi letterari entrano a far parte di un vasto dialogo nel quale gli autori e i generi letterari interagiscono in una fitta rete di influenze reciproche. L’opera di Shakespeare non sarebbe mai esistita senza la tragedia greca….Il « tempo grande » di Abate è il tempo della leggenda  (egli usa questa espressione per la prima volta nel romanzo La moto di Scanderbeg),  ma è anche il tempo della memoria che lascia in noi un « grumo di cocciutaggine ». Il racconto unisce le tessere di un tempo frammentato che si ricostituisce in « mosaico del tempo grande ».

 

Ron Kubati, l’altra riva

 

Il racconto di un albanese, figlio di un dissidente, ci porta a considerare il nostro paese dall’altra riva, la riva orientale dell’Adriatico, dove un popolo è vissuto in un artificiale isolamento per anni : Va e non torna[13], romanzo di Ron Kubati, ci permette di riflettere sulla ridefinizione delle frontiere : tra Est e Ovest, tra  passato e presente, tra Albania e Italia, tra vecchie e nuove generazioni.

Come Abate, l’autore non scrive nella lingua materna, decide di usare una lingua altra, l’italiano,  per dare forma ai suoi personaggi e per esprimere – attraverso il romanzo – il proprio personalissimo e condivisibile « nesso » tra arte e esistenza, tra passato e presente, tra memoria e oblio.

Kubati è nato a Tirana nel 1971 ed è emigrato in Italia nel 1991. Oltre al romanzo citato, ha pubblicato Venti di libertà e gemiti di dolore (1991), Tra speranza e sogno (1992, Albania), e M (Besa, Lecce, 2002).

Kubati narra l'esperienza dell'emigrazione, della opposizione politica al regime albanese e dell'inserimento nella società italiana. Si tratta del racconto dell’andare altrove, del rinunciare ad una dominazione dittatoriale, ad una realtà politica opprimente che nega i diritti individuali come la libertà di espressione.

La voce narrante presenta in modo discontinuo gli avvenimenti, il passato irrompe nel presente e interrompe il ritmo lineare del racconto. Non c’è linearità, ma un’oscillazione continua tra presente e passato che rende problematica la percezione del presente e determina una continua crisi del soggetto. Da ciò deriva la fragilità del protagonista, Elton Kodra, che ha subito la censura, ha vissuto l’appartenenza a una famiglia marcata dall’ « infamia » del tradimento (suo padre, prigioniero politico,  contestava il regime dittatoriale di Enver Hoxha), ha partecipato alla protesta degli studenti e ha preso la decisione finale della fuga.

L’avvicinamento del protagonista alla cultura italiana avviene progressivamente: Elton apprende l’italiano in Albania attraverso i libri e, paradossalmente, afferma : « quello che non capivo lo immaginavo » (ibidem, p. 126). Quando poi decide di partire, è cosciente del fatto che non ci sarà ritorno. E’ una linea di vita fatta di salti e baratri, nella quale tutto si trasforma violentemente e in cui l’appartenenza è tutta da costruire ; il momento cruciale è l’azione dopo la quale niente sarà più come prima.

Espatrio : uscire dalla propria patria, fare l’esperienza del salto e della libertà. Al medesimo tempo questa libertà conquistata appare angosciante : il soggetto crea da sé la propria impossibilità attraverso la « routine », gli schemi quotidiani. I due universi della narrazione, l’Albania e l’Italia, sono talmente distanti che il protagonista si orienta con difficoltà nel mondo « nuovo », in cui tutto è ancora possibile.

Le amicizie, i nuovi e vecchi amici, albanesi e italiani, costituiscono una rete importante nella costruzione dell’identità : il soggetto giunge ad avere coscienza di ciò che accade grazie allo sguardo fraterno degli altri, di coloro che condividono la sua condizione, così può realizzarsi la presa di coscienza della propria condizione di « figlio di prigioniero politico », e arriva a prendere forma la lotta politica degli studenti attraverso un sentimento di solidarietà e di resistenza, la distruzione dei simboli del passato, il cadavere di acciaio del dittatore viene trascinato per le strade della capitale dagli insorti.

Elton si apre alla coscienza degli eventi storici, la sua esistenza cambia perché sente che l’azione è possibile, la svolta è a portata di mano,  se si è in tanti a volerla.

Persino prendere possesso di un’immensa nave è possibile : l’istante della realizzazione dell’idea è il momento dell’azione che diventa reale quando tutta una comunità di persone vuole la stessa cosa :

Per una strana coincidenza il nostro natante va ad affiancare la prua della Legend. Così vicino, il nostro richiedente di sigarette s’arrampica sulla Legend per farsele consegnare di persona. La forza dell’esempio incoraggia un altro, che probabilmente non fuma neanche, che sale semplicemente per fare qualcosa di più del primo. Non ci vuole altro. Nessuno sa bene perché sale. Probabilmente ognuno pensa che quelli che lo precedono sanno cosa stanno facendo. O forse è la nave che si fa salire. […]

« Cosa dobbiamo fare ? » Un inglese rinforzato dai gesti risulta efficace ai fini della comunicazione.

« Dichiarate occupata la nave. Non c’è altro da fare ». Il gruppo che lo circonda ha i riflessi pronti.

« Va bene. Dichiariamo occupata la nave ».

Ci emozionammo. Eravamo occupanti. La nave era enorme e occuparla non era stato poi così difficile. In fondo le cose bastava volerle.[14]

 

L’azione comune si produce per la volontà di tanti : tutti d’accordo per farla finita con un passato ormai intollerabile. La narrazione passa dalla prima persona singolare alla prima persona plurale, ma la coralità non escude la crisi profonda dell’identità individuale. Ognuno si orienta come può in questo salto che spezza i ponti con un passato troppo doloroso, ognuno si sente parte di una vicenda collettiva e allo stesso tempo si produce un grande vuoto dentro che è anche ansia di novità :

Il mattino dopo, quando ci siamo tutti e siamo in migliaia, la nave si muove. Il mare la trascina verso non si sa dove. Non siamo noi ad attraversare il mare. E' il mare che si fa attraversare. L'alba è grigia, fredda e ventosa. Già in partenza, siamo digiuni da più di ventriquattro ore. Non capiamo più niente. Il nostro sguardo registra tutto ciò che succede per ritrasmetterlo solo ad avventura finita, in forma di memorie. Ognuno s'è aggrappato a qualcosa per poter affrontare meglio le onde e la pioggia che si confondono sopra di noi. La città alle nostre spalle diventa sempre più piccola, ma davanti a noi non si vede niente[15].

 

Il mare tra due terre è il simbolo concreto del cambiamento, dell’andare oltre e del passaggio tra due mondi.  Il narratore lascia la sua città, e si inserisce nel nuovo spazio urbano : la nuova città è  sempre presente nel racconto, con i suoi semafori, con la sua gente, con il suo traffico frenetico, con la sua stazione, luogo oltre la città e territorio « franco » fatto per gli incontri ; la città ormai non ha centro, periferie si sussegono senza identità, centri commerciali e semafori rendono anonima la terra di approdo. Il soggetto afferma la propria estraneità al luogo in questa sua erranza nel labirinto della città endemica, da un semaforo all’altro, da un caseggiato all’altro :

Strade che si curvano all’improvviso, palazzi diffidenti, persone sospettose, costruzioni che un minuto prima fiancheggiano un percorso e un minuto dopo, alle mie spalle, lo scompongono per rifarne un altro che porta chissà dove, benzinai che bevono birra. Supermercati, supermercati, troppi supermercati. Niente centro, solo periferie piene di case ugualmente abitabili da Elena…[16]

 

Il soggetto perde il territorio e cerca di orientarsi in un paesaggio fondamentalmente estraneo: l’eros fonda l’abitabilità, malgrado l’apparenza straniante di una città fatta di supermercati e caseggiati.

Nel romanzo traspare il processo di conoscenza della società italiana del Sud: l'università e gli studenti, il paesaggio tra campagna e città, la malavita locale, i poliziotti e l'ambiente della questura, gli immigrati. Gli immigrati sono ai semafori, propongono agli automobilisti vari servizi, valutano velocemente il loro interlocutore  secondo i propri bisogni, portano dentro una mancanza che accelera i loro riflessi. Il narratore sottolinea più volte la condizione dell’immigrato e di colui che è sul punto di migrare. Anche gli amici italiani che Elton frequenta manifestano la propria volontà di partire: in Italia, la migrazione Sud-Nord è determinata essenzialmente da motivi economici, a causa della disoccupazione.

Le nuove esperienze esistenziali si innestano su un passato tragico, che si rivela attraverso il racconto dei prigionieri politici in Albania e delle vicende familiari. Tuttavia, il paese di accoglienza non ha sempre un volto amico. Il protagonista, infatti, subisce sulla propria pelle episodi di razzismo: « Il passo fra la non conoscenza e l'odio è maledettamente breve » (ibidem, p.108). Dopo il trauma della partenza, che è in un certo senso, perdita di un mondo, il soggetto si costruisce un’appartenenza, linguistica, sentimentale, culturale. Il protagonista fluttua tra diversi settori della realtà, dall’intimo al burocratico, passando attraverso momenti di soddisfazione e di profonda crisi. In effetti, in alcune pagine, il romanzo mette in crisi il mondo e la realtà: « si vive in mezzo a rapporti consumati ». La perdita di ciò che è noto, familiare, apre il soggetto alla paura dell’ignoto e alla crisi della presenza : « E' molto tardi / mi manca il fiato / mi manca la speranza / mi manca il pensiero. Trascino le ossa / fino al letto / e mi scarico lì. / Appoggio il mio mondo sul cuscino / e l'unico guardiano rimasto sveglio / spegne anche l'ultima candela » (ibidem, p.148).

Il soggetto arriva ad una sorta di scissione, tra volontà e azione : « So quel che voglio, non so ciò che faccio » (ibidem, p. 191). La partenza è anche una forma di mutilazione, dei propri affetti del proprio passato, di un paesaggio che diventerà paesaggio interiore. L’immigrato è privo della rete protettiva della famiglia e degli amici, delle abitudini, della propria lingua. Eppure è pronto al salto, alla discontinuità, alla vertigine del cambiamento : egli « va e non torna ». La sua esistenza è ad un crocevia di possibilità.

L’autore immagina un mondo dove non ci siano ghetti, dove il desiderio, l'anelito, lo slancio vitale dell'immigrato non confluiscano per rabbia o impotenza nella criminalità, ma siano canalizzati in senso positivo. L’immigrato si dispone così a una nuova nascita : il giovane protagonista, che è anche principalmente la voce narrante, ci offre uno sguardo sulla città senza centro, all’opposto di Hora, poiché non corrisponde ad un progetto comunitario.

 La scrittura di Kubati è piena di voci : è una narrazione di mondi collettivi e individuali, che emergono attraverso i dialoghi. Il discorso diretto è più frequente del discorso indiretto, attraverso i dialoghi percepiamo le diverse realtà dei personaggi, penetriamo anche l’universo dei « passeurs », che fanno commercio di anime tra le due rive. Elton traduce dall’albanese per gli investigatori le telefonate intercettate dalla polizia ; ad un certo punto, la conversazione telefonica allude al possibile naufragio di un gommone carico di clandestini  presso le coste pugliesi. E’ un’immagine - purtroppo - quotidiana che ci conduce alla questione della ridefinizione delle frontiere : si creano confini invisibili all’interno delle città, tra centro e periferia, tra città e campagna, tra Est et Ovest. I nostri mondi tendono pericolosamente verso un’omogeneizzazione, un livellamento dettato principalmente dallo stesso principio economico dominante in quasi tutti i settori dell’esistenza.

La scrittura letteraria, nella forma del romanzo della migrazione, con Abate e Kubati, malgrado la differenza di cultura e di generazione,  ci porta a considerare l’esperienza dell’apocalisse culturale, fine di mondi culturali,  che, per necessità storica e individuale, il migrante si lascia alle spalle. Il romanzo della migrazione è all’incrocio delle lingue e delle culture : romanzo del plurilinguismo (Abate), dell’interculturalità (Kubati), della memoria collettiva e individuale.

Il soggetto della scrittura affonda le proprie radici nel passato che fa parte del suo presente : la sua identità in divenire si costituisce come equilibrio istabile, sempre rimesso in discussione e sempre ricostituito nel progetto individuale e collettivo. L’identità « portatile », che viaggia dove va il soggetto,  può assumere diverse forme di appartenenza innestandosi su nuove lingue e nuovi rapporti umani.

Quando il romanzo della migrazione si distacca dal mero autobiografismo e dall’« avventura individuale » si apre alla dimensione della depersonalizzazione e della deteritorializzazione, in quanto è in grado di andare oltre la vicenda umana particolare. Solo allora potrà vivere nel « tempo grande » della letteratura.

 

 

 

 

 

Bibliografia

Abate Carmine, Il muro dei muri, [1984] e 1993, « Oscar » Mondadori, Milano, 2006.

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Adonis, « La langue de l’exil », in Athanor 4, 1993.

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Biancofiore Angela, « L’atelier, théâtre du monde », in Id.,  Benvenuto Cellini artiste-écrivain : l’homme à l’œuvre, L’Harmattan, Paris, 1998.

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De Luca Erri, Piano terra, Quodlibet, Macerata, 1995.

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De Martino Ernesto, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, « Introduzione » di Clara Gallini e Marcello Massenzio,  Einaudi, Torino, 1977 e 2002.

 

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Lecomte, Mia (a cura di), Ai confini del verso. Poesia della migrazione in italiano, Le Lettere, Firenze, 2006.

 

Ruano-Borbalan  Jean-Claude, L'identité, l'individu, le groupe, la société, Sciences humaines éditions, Auxerre, 1998.

 

Todorov Tzvetan, L’homme dépaysé, Seuil, Paris, 1996.

Virilio Paul, Ville panique, Paris, Galilée, 2004.

Siti web :

 

http://www.fazieditore.it/autori/abate/intervista.html

 

http://www.celeste.it

 

http://www.leariedeltempo.it/identita/index.htm


 

[1] Pier Paolo Pasolini, “Profezia”, in Poesia in forma di rosa, Garzanti, Milano, 1964.

[2] Ha prodotto molto clamore il libro del giornalista di  Repubblica Giovanni Maria Bellu, I fantasmi di Portopalo (Mondadori, Milano, 2004) che ricostruisce la vicenda del naufragio di una nave partita da Malta e affondata a causa di una tempesta di fronte a Portopalo di Capopassero : morirono 283 immigrati, pakistani, indiani, cittadini dello Sri Lanka. Le autorità italiane ignorarono l’incidente.

[3] Erri De Luca, « Più sud che nord », Piano terra, Quodlibet, Macerata, 1995, p. 25.

 

[4] Nel 1991 l’autore pubblica il primo romanzo Il ballo tondo, presto tradotto in albanese (Albania, Germania e Kosovo), la raccolta di racconti Il muro dei muri (1984, 1993 e Mondadori, Milano, 2006) e i romanzi La moto di Scanderbeg (Fazi, Roma, 1999), Tra due mari (Mondadori, Milano, 2002) e La festa del ritorno (Mondadori, Milano, 2004).  Il mosaico del tempo grande (Mondadori, Milano, 2006) ha di recente ricevuto il premio Vittorini a Torino in maggio.

 

[5]

Chora è il luogo attivo di manifestazione della realtà. Ha i caratteri dell’essere e del divenire, del Medesimo e dell’Altro perché è una matrice che permette la diversità, il molteplice, senza perdere la sua unità ideale Platone la immagina come « ricettacolo » nel quale l’oggetto misura la propria dimensione : l’oggetto quindi organizza e fonda il proprio spazio.

 

[6] Il mosaico del tempo grande, cit.,  p. 28.

[7] Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, « Introduzione » di Clara Gallini e Marcello Massenzio,  Einaudi, Torino, 1977 e 2002,  p. 202.

[8]  Alfred Storch e Caspar Kulenkampff, Il contadino di Berna, Müsingen, 1947, p. 107 cit. in De Martino, La fine del mondo, cit., p. 203.

 

[9] Carmine Abate, Il mosaico del tempo grande, cit., p. 82.

[10] Le « storie » nel gergo artistico rinascimentale, sono le « istorie », ovvero episodi narrati sotto forma di bassorilievi o di pitture che rappresentano le vicende di uno o più personaggi. Da cui il verbo « istoriare ». A proposito del mondo della bottega rinascimentale, rinvio al mio studio « L’atelier, théâtre du monde », in Angela Biancofiore, Benvenuto Cellini artiste-écrivain : l’homme à l’œuvre, L’Harmattan, Paris, 1998.

 

[11] « Introduzione », in De Martino, La fine del mondo, p. XXIV, cit., sottolineature mie.

[12] La fine del mondo, cit., p. 234. E’ interessante citare alcune riflessioni dell’etnologo sulle funzioni del mito : « Il mito quindi non è contemplazione ma attualità. "Esso è il ripetere in parole un potente evento". Rito della morte e resurrezione di Cristo. La ripetizione del mito mediante il racconto porta con sé un elemento che manca alle altre parole sacre, e cioè la forma. Il racconto mitico non soltanto evoca ma forma, cioè dà forma all'evento delle origini […] Non si può non celebrare un mito, poiché la celebrazione procede dalla sua struttura: il mito deve essere narrato, rappresentato, danzato » (ibidem, pp. 470-471).

« Nascere una seconda volta: a ciò che torna senza valore, al tempo perduto del passato, al simbolo chiuso, la cultura contrappone un tornare secondo un valore, un tempo riguadagnato, un simbolo aperto: e l'uomo nasce una seconda volta non già ritornando nel grembo materno, ma risolvendo quel cieco impulso nostalgico in nuove opere attuali per le quali davvero torna a nascere » (ibidem, p. 232, corsivi miei).

 

 

[13] Ron Kubati, Va e non torna, Besa, Lecce, 2000.

[14] Ibidem, p. 192.

[15] Ibidem, p.193.

[16] Ibidem, p. 155.

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