Narrativa

Parigi 2006

La dinamica identitaria in Carmine Abate: un groviglio di radici ancestrali e nuove

 di Martine Bovo Romoeuf


Carmine Abate è un autore atipico del panorama letterario contemporaneo: nato nel 1954 da una famiglia albanese immigrata sulle coste ioniche[1], è cresciuto in un paesino calabrese, Carfizzi, dove ognuno adottava l’arberësh come lingua di comunicazione prima di vedersi obbligato, come il proprio genitore, a lasciare la terra natale per trovare lavoro. Abate costituisce un esempio rappresentativo e originale di letteratura nata all’incrocio di due culture, arberësh e italiana.

Sin dal primo romanzo pubblicato in italiano, Il ballo tondo (Fazi,1991) fino a La festa del ritorno (Mondadori, 2004) senza dimenticare né i racconti dell’emigrazione Il muro dei muri (Argo, 1993) né i romanzi intermedi La moto di Scanderbeg (Fazi, 1999) e Tra due mari (Mondadori, 2002), l’autore affronta i temi del viaggio, dello sradicamento, ma soprattutto della problematica identitaria attraverso personaggi espressivi che evolvono tra i loro paesini calabresi d’origine cullati da una cultura arberësh, rivendicata come baluardo identitario, e la difficile quanto necessaria integrazione con gli altri paesi europei quali la Germania e la Francia che ospitano gli Italo-albanesi in cerca di lavoro. Raccontandoci la vita dei suoi personaggi in Calabria e le loro erranze in Europa, Abate ci prospetta un’identità sotto gli auspici del multiculturalismo, nel crogiolo di un ibridismo linguistico e di una mescolanza culturale che si impongono come realtà sociali e culturali inevitabili. Dal momento che, in ogni suo romanzo, Abate ha narrato o illustrato un aspetto della questione identitaria affrontata dai suoi personaggi, la presente comunicazione si propone di offrire una lettura contrastativa tra queste diverse modalità di rappresentazione della problematica identitaria, prima di soffermarsi più attentamente sull’ultimo romanzo dell’autore[2].

 

1- Tracce della problematica identitaria nella produzione narrativa precedente a Il Mosaico del tempo grande.

 

Con il romanzo Il Ballo tondo, l’autore proponeva una riflessione sull’identità italo-albanese a partire da un Carfizzi denominato Hora, un universo altamente cromatico, profumato, cullato dalle ammalianti suggestioni musicali delle rapsodie e popolato da personaggi colorati.

Il primo romanzo narrava la storia degli Avati nel corso degli anni ’50 e ’60, famiglia  stabilitasi in questo paesino calabrese dove la vita era scandita al ritmo della partenza degli uomini verso il Nordeuropa in cerca di lavoro. Il sistema dei personaggi rispondeva ad una dialettica del rapporto all’Altro secondo un’organizzazione di ordine binario: vi erano da un lato coloro che evolvevano in seno al microcosmo di Hora (donne, ragazze in età da marito, ragazzi chiamati a partire all’estero sulle orme dei padri, quindi gli anziani), dall’altro, coloro che maturavano altrove, all’estero, ma i cui movimenti consistevano nei ritorni o nelle partenze da Hora, teatro unico degli eventi narrati (basti pensare al personaggio del capofamiglia Avati soprannominato Il Mericano, figura dell’assenza per antonomasia e simbolo dei Germanesi).

Il romanzo era articolato in tre parti distinte che, seguendo le vicende sentimentali dei tre figli del Mericano, mostrava così l’impatto dell’incontro inevitabile tra il mondo protetto e affettivo di Hora, ripiegato sulla tradizione, e la necessaria quanto inevitabile apertura alle realtà socio-economiche della modernità. Il Ballo tondo era il racconto luminoso, tenero e poetico dell’epopea quotidiana di questi Italo-albanesi visti nel loro evolvere sulla scena della vita, tra storie d’amore contrastate o nascenti, quadri del quotidiano al paese, ricerca di lavoro, tentativi di migliorare la propria esistenza a Hora, feste; un racconto in cui gli Italo-albanesi si confrontavano con una doppia pressione dal momento che erano in contatto con l’Altrove: la permanenza della forte eredità della cultura albanese trasmessa dagli avi nei loro racconti e dalla popolazione in occasione delle feste rituali si misurava alla necessità dell’inserimento in una realtà socio-economica di cui i Germanesi, iperattivi, costituivano la più viva espressione.

L’insieme dei personaggi di Abate s’imperniava dunque su questa dialettica tra tradizione e modernità o, per dirla in altri termini, tra il ripiegamento su di sé e la tentazione dell’Altrove geografico e culturale. Difatti, l’originalità del romanzo risiedeva appunto nel fatto che l’autore non opponeva intimamente le due dimensioni della tradizione e della modernità ma le faceva coesistere, riconciliare, se non addirittura prolungare anzitutto nel ritmo di una struttura narrativa caratterizzata dalla peculiarità di mescolare il mito (attraverso l’epos di Scanderbeg, l’eroe nazionale), le rapsodie delle origini albanesi (cornice imprescindibile al racconto), e la realtà degli eventi, cioè del presente degli abitanti di Hora. La peculiarità e il fascino del romanzo di Abate si snodavano nel ritmo narrativo cadenzato sulle onde sonore della rapsodia: una rapsodia incorniciava ciascuna delle tre parti costitutive del romanzo, fornendo il la musicale e tematico alla materia narrata e imprimendo la dimensione epica all’insieme del romanzo. Infine, l’autore lavorava in particolare sulla musicalità della lingua: se scriveva in italiano senza perdere il ritmo della lingua madre, nutriva il racconto di termini arberësh, sempre fedelmente corredati dalla traduzione italiana o allora inseriti in un contesto linguistico sufficientemente esplicito per permettere la loro comprensione immediata nell’idea di una continuità non frazionata tra italiano e arberësh.

Senza volermi soffermare sullo studio di questo romanzo, oggetto di un’analisi approfondita pubblicata su Kuma[3], mi sembra tuttavia opportuno insistere sul fatto che esso metta in opera, al pari dei romanzi successivi, l’impianto tematico e linguistico proprio del linguaggio poetico di Abate: la sua produzione narrativa si palesa deliberatamente come crocevia culturale in cui si mescolano con naturale fluidità le culture italiana e albanese. Tra gli elementi tipici di quest’ultima, si riconosce ne Il Ballo tondo il tema della cavalcata funebre, la tradizione della fede giurata – la besa – simbolo di una delle regole del Kanun, il «codice della montagna» che aveva regolato per secoli la vita sociale del popolo albanese, secondo il quale la parola data, il giuramento, sono sacri e acquisiscono più valore di qualsiasi documento firmato. Si riconosce ancora il simbolo dell’Arberia, l’aquila a due teste che percorre la narrazione, il fascino desueto delle serenate, i canti funebri, il carattere sacro dell’ospitalità. Adottando la rapsodia come metro narrativo e musicale, Abate opera un innesto della sua cultura albanese su una base linguistica italiana e proietta il patrimonio storico e mitico albanese in una dimensione in cui l’ibridismo culturale è avvertito come ricchezza.

Poiché questo è il punto di partenza del nostro studio oggi: l’ibridismo culturale come trampolino verso la coscienza identitaria. Abate, madrelingua arberësh, partito in Europa al seguito di suo padre, emigrato in Germania (si ricordi a tal proposito la sua appartenenza all’associazione Polikunst), ha fatto esperienza della multiculturalità. Ora questo aspetto preponderante affrontato narrativamente nelle opere precedenti Il mosaico del tempo grande è oggetto di un sondare successivo, durante il quale l’esperienza multiculturale è fonte di dilaniamento identitario prima di condurre, come per effetto di una maturità elaborata nel corso dei romanzi, verso la conclusione proposta nell’ultimo romanzo: l’idea di una coscienza identitaria formulata in un’ottica dinamica del recupero del passato.

Proviamo a dare uno sguardo alle opere che apportano ognuna la loro pietra all’edificio di questa lenta ma sicura costruzione dell’identità proposta nell’ultimo romanzo.

Ne Il ballo tondo, è l’epilogo a darci la chiave di lettura facendo di quest’opera un testo aperto sul futuro, fondato sull’idea di continuità generazionale: esso mette in parallelo la morte dell’eroe mitico Scanderbeg e quella del nonno Nani Lissandro. Il Nani muore il giorno del matrimonio della nipote guardando dalla spiaggia dove si era appartato in compagnia del pronipote Paolo la scena del valzer rituale eseguito in onore degli sposi. La morte lo sorprende mentre lui, in un gioco di connivenza con il ragazzino, giocava a infischiarsene di quella danza eseguita con goffaggine. Muore ridendo, prendendo le distanze da ciò che costituisce il nucleo della tradizione, il rito del matrimonio, ma comunicando al ragazzino il gusto e la curiosità per la sua cultura d’origine. Questi entra a pieno titolo nel valzer dell’esistenza da cui esce il Nani e attraverso il finale aperto è chiamato a riprendere la fiaccola memoriale che provvederà ad arricchire della propria personale esperienza. Abate ci inizia in questo romanzo a una nozione importante: il tempo del romanzo è il tempo della leggenda che accompagna la storia nel suo divenire, e la storia degli individui non è possibile se non in una piena, cosciente perché critica accettazione del patrimonio culturale sentito non come fossile ma come vettore verso il futuro.

L’eredità culturale del passato come base identitaria è oggetto di una rappresentazione interessante ugualmente ne La moto di Scanderbeg, secondo romanzo dell’autore, frutto di una polifonia narrativa che ricostituisce attraverso un caleidoscopio di voci la vicenda di Giovanni Alessio, in perenne erranza tra la Germania e la sua Hora nativa, combattuto tra la voglia di seguire l’amata Claudia all’estero e la struggente nostalgia per un paese e una vita lasciati alle spalle. La giovane coppia stabilitasi a Colonia è sintomatica di un atteggiamento contraddittorio rispetto al sentimento identitario: mentre Claudia rappresenta la feroce volontà di troncare col passato e il luogo d’origine per trovare il suo posto nella nuova società, Giovanni è progressivamente, e suo malgrado, riassorbito nel suo passato grazie a Stefano Santori, un amico d’infanzia dallo sguardo misterioso, descritto non senza innocenza con degli «occhi di calamita» come per reimmergerlo meglio nei racconti del tempo che fu.

Nel caso di questo romanzo nettamente più politico, poiché affronta le questioni delle lotte per l’occupazione delle terre, il personaggio di Giovanni concentra tutti i dolori e gli interrogativi dell’esilio e di una situazione d’intermezzo geografico e culturale, non trovando soluzione se non nella fuga. Il mito di Scanderbeg è qui eretto a modello per il giovane Giovanni che si impregna della sete di ideali e di giustizia dell’antenato.

La terza opera, Tra due mari, strutturata intorno alla tematica del viaggio, si offre come romanzo di formazione del giovane protagonista: racconta l’evolversi del rapporto di Florian, prima bambino, infine giovane adulto, con la figura dominante del nonno Giorgio Bellusci. Tutto questo nel microcosmo familiare, oggetto di narrazioni e silenzi, di devozioni assolute e sorde ostilità. Tutta la vita di Giorgio Bellusci ruota intorno a un sogno e a una lotta per realizzare questo sogno: la ricostruzione della locanda di famiglia, Il Fondaco del fico, dove una volta si erano fermati durante il loro viaggio in Calabria lo scrittore Alexandre Dumas affiancato dal pittore Jadin. Il fatto è che i giovani del paese, i più avveduti e moderni, vedono in Giorgio Bellusci un modello perché ai loro occhi egli incarna un futuro reso possibile dalla fedeltà al passato. Perché tale è il senso di questo accanimento caratteristico del personaggio: la ricostruzione della locanda, ottenuta a forza di sacrifici e malgrado la sua distruzione sapientemente orchestrata dalla ’ndrangheta, non si riduce a un’ossessione privata ma è il simbolo di una progettualità indomita, che considera come costitutivo della dignità umana proprio la capacità dell’uomo di costruirsi un futuro basato su solidi radici, non superficialmente improvvisato.

Florian sarà l’erede di questa incombenza etica poiché, adulto, sarà il gestore della locanda insieme a Martina. Ma la formazione identitaria del giovane va ben oltre: è una mistura di mondi a formare l’identità transnazionale di Florian: la madre sposata con un tedesco, un nonno tedesco, più lingue nel suo percorso formativo (l’arberësh, il calabrese, l’italiano, il tedesco), un’identità simbolica della condizione migrante ricorrente negli scritti di Abate.

Come si evince da questi pochi esempi, l’identità dei personaggi di Abate si declina sempre attraverso i temi della partenza dal nucleo affettivo calabrese, dall’erranza, dall’esilio – malgrado scelga deliberatamente di mostrarne solo gli aspetti più positivi, fatta eccezione per la raccolta di novelle più disincantata, Il Muro dei muri – ma soprattutto si declina nello spirito di una continuità necessaria tra passato storico e contingenza del presente, come se non fosse possibile proiettarsi nel futuro se non mediante un recupero del suo patrimonio culturale. Il mosaico del tempo grande sembra essere il punto di arrivo, il coronamento di questa idea della formazione identitaria.

 

2-Vettori di memoria e trascrittori ne Il mosaico del tempo grande:

 

L’opera si presenta nel suo carattere ibrido: un po’ romanzo di formazione, arricchito delle tinte del romanzo storico e del giallo, Il mosaico del tempo grande è in realtà una grande composizione di storie tramandate da varie generazioni che, orchestrate attorno all’innamoramento del personaggio di Michele per Laura e alla fuga misteriosa del padre di lei (Antonio Damis) dal paesino arberësh di Hora, vanno a comporre, parallelamente alla costruzione del mosaico nella bottega dell’albanese Gojari e alle vicende del microcosmo di Hora, il mosaico della diaspora albanese attraversando oltre cinquecento anni di storia di un popolo. Una considerazione liminare sulla struttura e sul sistema dei personaggi del romanzo ci sembra opportuna: sono perlopiù dei personaggi a tutto tondo, vividamente mediterranei, ad animare la trama di questa lunga epopea dell’emigrazione modulata, in questo nuovo romanzo, secondo la tecnica narrativa del mosaico. Il titolo può infatti costituire una chiave di lettura strutturale : allude certo al mosaico a cui sta lavorando l’artista Gojari – e sul quale torneremo – ma indica anche la tecnica compositiva dell’opera, una tecnica musiva di mise en abîme, con le singole storie che si incastonano una nell’altra, animando un quadro narrativo molto complesso.

In effetti, la profusione di personaggi che evolvono nel 1400 e nel 1900, quanto le molteplici vicende ad essi legate, sconcertano in un primo tempo: in realtà, questi pezzi differenti costituiscono i tasselli di un unico e grande mosaico narrativo il cui effetto finale si realizza nella convergenza di questi diversi frammenti storici colorati, simboli di sofferenze e di resistenze, per offrire la rappresentazione di una storia collettiva, corale. Troviamo innanzitutto dei personaggi del 1400 colti nel loro evolvere: si tratta del papàs Dhimitri Damis accompagnato dalla moglie Anesa e da altri arberësh in fuga dinanzi alla minaccia turca, intenti a lasciare il loro paese a bordo di un’imbarcazione di fortuna per approdare sul litorale opposto, sulle coste italiane della Calabria dove fondano il paese di Hora citato da Abate nei romanzi precedenti, da Il ballo tondo a La moto di Scanderbeg.

Intorno al coraggioso e intraprendente papàs Dhimitri Damis, si delineano personaggi altrettanto temerari e decisi a conquistare la propria libertà, quali Tasti Damis (uno dei figli del suddetto padre) e Liveta, degni combattenti eredi del coraggio dell’eroe nazionale Scanderbeg che guideranno la battaglia contro i Turchi a Venezia prima di tornare in Albania, dove saranno catturati e giustiziati in circostanze terribili. È il nome dei Damis a consentire di collegare gli episodi dedicati all’arrivo dei primi abitanti arberësh a Hora, nel 1400, agli episodi del tempo presente della narrazione. Da Dhimitri Damis, primo papàs di Hora, si passa al racconto delle sofferenze del figlio Jani Testi, un mito in tutto e per tutto, che lascia dietro di sé un figlio, Kolantoni Damis, diventato a sua volta papàs del paese. Questi è il custode dell’oro del paese e di un pugnale appartenuto al mitico Scanderbeg, tesori che conserva preziosamente in un luogo noto a lui soltanto e che, colto da morte accidentale, non farà in tempo a rivelare.

Questi oggetti simbolici – perché garanti della memoria degli avi – scateneranno un odio ancestrale che sorvolerà i secoli per toccare ancora il lontano erede di questo nome nel 1900, Antonio Damis. Costui fa le spese di un rancore tenace degli abitanti di Hora che vedono in ogni membro della famiglia Damis un potenziale traditore della loro causa, un erede della stirpe Damis che ha smarrito e forse rubato il tesoro della comunità arberësh.

Tra i personaggi che operano sul versante del 1900, dunque nel presente narrativo, figurano Antonio Damis (di cui seguiremo la storia d’amore con Drita, una ballerina che lui aiuterà a fuggire dall’Albania comunista di Hoxha e dalla quale avrà una figlia, Laura), ma anche Michele, la voce narrante, con la sua famiglia e la sua cerchia di amici e soprattutto Gojari, detto anche Boccadoro, il cantastorie ceramista. L’insieme dei personaggi di Abate risponde a una forte logica simbolica che li unisce al di là dei secoli che li separano: che si tratti degli avi fondatori di Hora nel 1400 o di Antonio Damis e di Drita nel 1900, sono tutti accomunati da un vitalismo impareggiabile, da valori intrisi di coraggio, di tenacia, di resistenza alle forze nemiche, siano esse i Turchi di ieri o il regime comunista di oggi, ma soprattutto sono dei personaggi concepiti e plasmati sul ricordo del modello eroico di Scanderbeg.

Al contrario, Gojari si tiene ai margini, egli appartiene a una stirpe di cantastorie per tradizione che tramandano la memoria del loro popolo albanese: prima di lui, suo padre, Iosif Damisa, raccontava già le storie vere di Jani Tasti Damisa ad Antonio Damis contribuendo a radicarle in una dimensione mitica nel corso del tempo. Attraverso una profusione di personaggi apparentemente privi di nesso gli uni con gli altri, e l’intreccio delle loro storie rispettive, Carmine Abate sceglie così di offrirci un romanzo particolarmente complesso e raffinato, strutturato esattamente come una tela affollata da personaggi in connessione permanente gli uni con gli altri, dove la storia individuale si coniuga con quella collettiva in una dinamica unica, evolutiva ma anche ciclica. Clamori, macerie, quindi la fuga degli uomini al cospetto della guerra: questo accadeva nel 1400 come nel 1900. Tra il racconto della lotta contro la tirannide (ieri dei Turchi, oggi dei vari Henver Hoxha), storie d’amore di ieri e di oggi, partenze e ritorni, in un incrocio diacronico di fatti e di memorie, l’autore ci narra in primo luogo la storia della fondazione mitica di un paese, Hora, ma non solo, ci racconta soprattutto, attraverso lo sguardo del giovane narratore Michele, la formazione di una coscienza identitaria.

 

Michele e Gojari sono i due cantastorie nel romanzo: è Gojari, l’artista ceramista, a raccontare e ricomporre le tessere del mosaico nel senso proprio come in quello figurato, poiché il frutto del suo lavoro d’artista è la materializzazione diretta dei molteplici racconti che ama trasmettere ai suoi giovani uditori, Michele e i suoi amici, frequenti visitatori della sua bottega per il piacere di ascoltarlo. È Gojari il vero narratore onnisciente che affabula Michele, il giovane io narrante deciso a conoscere il segreto di una storia che lo porta indietro nei secoli. Fra i due narratori, Gojari e Michele, si sviluppa tutta la tensione narrativa del testo: Gojari incarna il tempo storico del romanzo, proiettando la fabula nell’imperfetto narrativo, Michele quello del presente problematico e orienta la fabula in una inattesa dimensione investigativa. Il romanzo, nell’ottica di Michele, procede infatti come una investigazione, una raccolta di testimonianze utile per ricostruire la genealogia dei Damis. Nell’ambito della storia d’amore che lega Michele a Laura, l’ultima discendente dei Damis, la scoperta e la comprensione genealogica della famiglia di lei entrano a far parte del suo percorso formativo e sentimentale, cioè di un processo di scoperta identitaria come per meglio proiettarsi nel futuro insieme alla compagna.

Ciononostante, il personaggio di Gojari merita un’attenzione particolare. I romanzi precedenti di Abate hanno già proposto tutta una tipologia di personaggi che veicolano la tradizione orale, e che possono dunque dirsi vettori di memoria, e di personaggi tesi perlopiù a trascriverla. In entrambi i casi, si tratta di personaggi che a un certo punto della loro esistenza si sono confrontati con l’esigenza non solo di riconoscersi in una tradizione culturale, ma anche di diffonderla a loro volta. La trasmissione della memoria si attua soprattutto nell’oralità, come avviene ne Il ballo tondo: si pensi a quei vettori di memoria orale quali il Nani Lissandro, nonno del piccolo Costantino (che adulto percorrerà i paesi arberësh della sua Calabria natale per raccogliere i canti tradizionali delle donne e trascriverli fedelmente sul suo taccuino) o ancora all’enigmatico rapsodo Luca Rodotale, considerato «vivo morto»[5] e che setacciava le campagne calabresi in groppa al suo mulo per cantare le rapsodie dei tempi antichi in occasione delle feste del paese. In La moto di Scanderbeg ma anche in Tra due mari, la funzione del recupero della tradizione orale è affidata alla figura materna ed è associata al canto, alla musica[6] che culla e nutre l’immaginario dei narratori. Tra i personaggi trascrittori, ricorderemo il comico e toccante Carmelo Bevilacqua, il maestro di scuola appena giunto dal Lazio (Il ballo tondo), quindi il giovane dagli occhi di calamita, Stefano Santori, (La moto di Scanderbeg) diventato storico e autore di opere sulla sua Hora natale. Tornando al nostro romanzo, basterà pensare al personaggio della giovane Laura di cui nessuno conosce ancora l’identità quando arriva a Hora per raccogliere materiale per fare una tesi di laurea su Hora e le sue origini[7].

La lista sarebbe ancora lunga, ma in questa sede ci preme far notare quanto sia importante e centrale nella poetica di Abate la problematica della conservazione della memoria: il dovere di fare memoria è al centro dei suoi romanzi, il che è ancor più vero in quest’ultima composizione costruita su un ravvicinamento costante tra gli avi e la generazione attuale. In passato, i primi costruttori di Hora trovavano conforto nell’esilio attraverso un atteggiamento di ancoraggio identitario, come possiamo constatare dalle impressioni del papàs: “Non ci siamo persi e non lo saremo fino a quando conserveremo memoria di chi eravamo e da dove veniamo.[8]

Oggi, la giovane generazione di Michele e Laura ricerca attivamente una spiegazione alla propria esistenza e si attiva per fissarla e ancorarla nel suo presente. La giovane coppia si forma sulla base di un interesse comune alla genealogia dei Damis, quindi del tempo grande. 

Particolarmente significativo in un simile contesto il caso del personaggio di Gojari, poiché di tutti i personaggi presenti nell’insieme dei romanzi di Abate, siano essi cantastorie o trascrittori dell’oralità, è quello che riunisce le funzioni delle due generazioni in questione, quella dei “passeurs de mémoire”, cioè dei vettori di memoria orale e quella dei trascrittori, è colui che concentra al contempo le doti del cantastorie e dell’artista, che non si accontenta di operare un nesso orale tra passato e presente, come faceva suo padre prima di lui, essendo unicamente un vettore di parole ma è anche colui che fissa i momenti di questa storia collettiva sul mosaico, le dà vita attraverso riflessi, colori, materie come se riplasmasse l’epopea trasformandola e materializzandola in arte pura, opera di creazione.

Gojari crea ispirandosi al passato. Il passato è il fermento necessario e indispensabile all’atto creativo che permette ai diversi personaggi di affermarsi. Non a caso, in questo romanzo le vicende dei personaggi si svolgono in modo speculare, se non addirittura ciclico: si assiste a spaccati di vita nella Hora albanese e nella Hora calabrese, il cantastorie Gojari tramanda gli stessi racconti di suo padre, la storia d’amore tra Michele e Laura riproduce quella del padre di Laura, Antonio Damis, e di Drita, come per meglio ancorare il divenire dei personaggi nella Storia degli Antichi. Il punto d’incontro tra queste due dimensioni, tra il passato mitico e il presente, è costituito da Gojari che distilla indizi di lettura al giovane Michele quando dice in modo enigmatico: “ Hora jonë è come un iceberg, metà fuori illuminata dal sole e metà, oscura, dentro di noi [9]

 

La sua funzione narrativa è precisamente quella di far emergere nei personaggi che lo affiancano il sentimento di appartenenza identitaria, e questo in particolare in Michele, simbolo del divenire, del futuro generazionale: “Tessera dopo tessera, Gojari stava disseppellendo la nostra memoria, ci costringeva a ricordare. Perché quelle storie, a ben vedere, erano sepolte dentro di noi come preziosi tesori in fondo al mare e la voce di Gojari, le sue abili mani, le spingevano a galla.[10]

 

Il personaggio di Gojari assume pienamente questo ruolo di cerniera tra passato storico e presente grazie alla sua attività artistica ma anche alla sua identità: è albanese e ha lasciato il suo paese nel 1991 per fuggire la dittatura, si ritrova in Calabria in una Hora popolata da gente arberësh. Gojari ha riprodotto nella sua persona l’esperienza dell’esilio vissuta nel 1400 dai fondatori di questo paesino arberësh dove oggi risiede. E non solo la riproduce, ma la fissa per l’eternità poiché, come diceva ai suoi uditori[11]: «mi sembra che al momento non ci sia altro da aggiungere, se non collegare il passato al presente nel modo più spontaneo possibile, senza forzature. Solo così il tempo grande avrà un senso. Sarà il lavoro più difficile.”

 

Conclusione:

 

Se il primo romanzo può leggersi come una realizzazione particolarmente innovatrice e esteticamente riuscita nella sottile mescolanza tra cultura arberësh e calabrese, Il mosaico del tempo grande conferma la chiave di lettura già delineata ne Il Ballo tondo, ponendosi come romanzo centrato sulla dialettica tra modernità e ancoraggio al passato. La conferma e al tempo stesso la supera. Attraverso una struttura a incastro assurta al rango di opera d’arte, insieme chiave di lettura e oggetto della narrazione, grazie a un personaggio (Gojari) che concentra con un effetto di sovrimpressione le doti del narratore, del vettore di memoria e di trascrittore favorendo l’incrocio della macro e della microstoria. È precisamente in questa dimensione che si effettuano l’apprendimento e la formazione di Michele: la nascita del sentimento identitario si compie nel sentirsi parte integrante di un processo di recupero della memoria collettiva, nella scoperta di un sentimento di appartenenza a un popolo e nell’accettazione dell’ibridismo culturale che lo caratterizza. A sua volta, egli lascerà Hora per seguire Laura in Olanda, Laura che è l’incarnazione stessa di questo ibridismo linguistico avvertito come ricchezza[12].

 

La forza del romanzo di Abate risiede certo in questa struttura a incastro, come un mosaico che collega passato e presente storico, tuttavia, credo che si debba andare oltre e vedere in questo romanzo la nozione d’identità come un concetto dinamico, proiettato verso il futuro come verso l’incerto, in balia dei venti. Un dettaglio conforta questa interpretazione: le descrizioni paesaggistiche dei precedenti romanzi insistevano sull’afa che era associata al paesino calabrese, un’afa che inebriava i sensi, e comunque riportava col solo pensiero gli esuli lontano, indietro nel tempo, indietro nel loro paese nativo. La scrittura sensuale di Abate traduceva il suo amore al tempo stesso doloroso e quasi carnale dell’esiliato per la sua terra in certe descrizioni di paesaggio immerso in una calura intensa, quasi a voler tradurre l’attaccamento viscerale, appiccicaticcio – diremmo – a questa terra. L’afa non è scomparsa nell’ultimo romanzo, ma questa volta scopriamo una Hora esposta ai venti[13]: «qui sulla collina di Hora s’incrociano i venti che soffiano dalla Sila e dal mare nostro, dal Nord e dal Sud. Un vortice fresco o caldo, a seconda delle stagioni, che comunque ti sconvolge i capelli, ti strappa i pensieri dalla testa. »

Hora, punto d’incontro dei venti come teatro dell’incontro di popoli. Se nel Il ballo tondo Abate evocava già la morte attraverso l’immagine altamente poetica “dell’ombra di vento”, ne Il mosaico del tempo grande, ci racconta l’impollinazione linguistica attraverso questo vento che soffia su Hora e dissemina il calabrese, l’arberësh, l’italiano al di là delle frontiere[14].

 

Martine Bovo Romoeuf

Université Michel de Montaigne Bordeaux 3.


 

[1] Giunti in Italia nel XIII secolo, i primi albanesi erano perlopiù soldati accorsi a dar man forte ai re di Napoli contro l’anarchia feudale dei baroni. Ma le autentiche migrazioni del popolo albanese risalgono invece al 1468, dopo la morte di Scanderbeg, unanimemente considerato eroe nazionale per aver condotto la battaglia contro l’invasore turco nei Balcani. Scanderbeg morì di malaria e alla sua morte i suoi guerrieri, guidati dal figlio Giovanni, si diressero verso le coste italiane per appropriarsi dei feudi e delle terre donati loro dalla casa di Aragona come ringraziamento dell’aiuto militare ricevuto. È dunque a partire dal XV secolo che troviamo comunità albanesi nell’Italia meridionale. Ancora oggi, questi rifugiati di Giorgio Kastriota Skanderbeg si definiscono arbëresh che parlano l’arbërisht e abitano l’Arbri, perpetuando così il ricordo dell’antica etnia d’Albania (detta oggi shqiptar, shqip e shqipëri). La lingua arbëreshe rappresenta una branca autonoma del ceppo dialettale presente nell’Albania del sud, nettamente diverso dal ghego, parlato al nord. L’area italiana in cui si trova questa minoranza linguistica italo-albanese e dove si parla ancora l’arbëresh conta oggi cinquanta centri ripartiti nelle seguenti regioni: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia. Allo stato attuale delle cose, le statistiche non permettono di determinare con precisione il numero di locutori albanesi residenti in Italia. In cinque secoli di presenza sul territorio italiano, la comunità albanese ha saputo preservare la sua lingua, fonte preziosa d’informazione sull’albanese medievale, e l’ha elevata al rango di lingua letteraria (la lingua letteraria albanese è stata ufficialmente riconosciuta nel 1972).

[2] ABATE, Carmine con Il Mosaico del tempo grande, Milano, Mondadori, 2006, è uno dei tre vincitori del premio letterario “Elio Vittorini”organizzato dalla Provincia regionale di Siracusa.  

[3] BOVO ROMOEUF, Martine, « Rhapsodie italo-albanaise de Carmine Abate », in Kuma, n°11, aprile 2006, http://www.finzioni.it/kuma/nuovokuma/kuma.html

[5] ABATE, Carmine, Il ballo tondo, cit., p.116.

[6] «La voce di mia madre era solitamente morbida, melodiosa, quella sera alla fine del racconto, era diventata un canto d’amore. […] Da quella posizione (col capo sulle ginocchia della madre) a volte riuscivo a vedere una formica […] a un passo da noi, incapace di allontanarsi dalla voce di sirena di mia madre » in ABATE, Carmine, La moto di Scanderbeg, cit., p. 22.

« E una sera, a sorpresa, la mamma cominciò a parlarmi di Giorgio Bellusci […] L’ascoltai a occhi chiusi, perché parlava con un ritmo musicale che spesso mi piaceva più della storia raccontata. In ABATE, Carmine, Tra due mari, cit., p.52.

[7] ABATE, Carmine, Il Mosaico del tempo grande, cit.,p. 52.

[8]Ibidem, p. 28.

[9] Ibidem, p. 143.

[10] Ibidem, p. 82.

[11] Ibidem, p. 197.

[12] « Erano persone in gamba i suoi genitori, ha detto Laura con orgoglio, e lei aveva vissuto un’infanzia felice, parlando con loro un miscuglio di arberësh e albanese e fuori di casa l’olandese, imparando col padre l’italiano, il tutto con naturalezza », Ibidem, p.136.

[13] Ibidem, p.62.

[14] « Nel Ballo tondo questa commistione linguistica era molto meno presente: c’era solo l’arberësh e l’italiano. Poi piano piano, ho riscoperto anche la mia parte calabrese, perché non sono un fanatico delle minoranze […]. Noi viviamo da cinque secoli in Calabria, siamo arberësh ma siamo anche calabresi.[…]E noi discendenti […] siamo tutti frutto della contaminazione, che è una contaminazione linguistica, culturale, e una contaminazione d’amore. La contaminazione è la caratteristica dei miei libri e di questo libro [Il Mosaico del tempo grande] in particolare. Ma una contaminazione vissuta come una ricchezza, e non come perdita dell’identità originaria». ABATE, Carmine, «Mosaico d’identità», in Il Crotonese, 31-01-2006.