Nuova edizione negli Oscar Mondadori dell’opera prima di Carmine Abate
Oltre “Il muro dei muri
di Isabella Marchiolo
Sono state scritte all'inizio degli anni Ottanta le
storie di “Il muro dei muri”, esordio narrativo di Carmine Abate che oggi
ritorna in libreria con una versione ampliata per gli Oscar Mondadori. Da
quella prima edizione in tedesco dell'84 (a cui era seguita, nell'93 la
traduzione italiana con la casa editrice pugliese Argo) sono trascorsi
dodici anni. Eppure, leggendo i quattordici racconti del libro, la
sensazione è quella di un involontario, fatale annullamento del tempo. Quasi
un destino che si ripete. Nelle storie dei “germanesi” partiti con la
valigia di cartone, in fuga da luoghi caldi di sole ed aridi di pane verso
quel Nord prodigo di denaro facile. Quel Nord, soprattutto, di sogni cullati
nell'ansia di un nuovo risveglio nella stessa, avara terra abbandonata.
Ma è anche - possiamo pensarlo oppure lo sappiamo d'esperienza - il destino
dei giovani laureati che oggi partono da Sud diventando un numero
dell'altisonante espressione coniata per l'emigrazione moderna, la “fuga dei
cervelli”. E, infine, il destino degli eredi contemporanei di quel nostro
destino tutto meridionale, gli extracomunitari che oggi, come in uno
specchio, sostituiscono alla Germania delle promesse una favolosa “Italia
aperta”, ancor più ghiotta nell'effimero ritratto di abbondanza millantato
dalla televisione. Nei racconti di Carmine Abate, oltre i confini di luoghi,
nazionalità e lingue, c'è tutto questo. E, certo, constatare che la storia
si ripete, mette addosso un po' d'inquietudine, come sempre quando
immaginiamo un destino padrone. Ma Abate, già in questi racconti abile a
dosare malinconia e leggerezza in una scrittura fresca e immediata (quella
che sarebbe giunta a maturazione nei primi romanzi “La moto di Scanderbeg” e
“Il ballo tondo”), riesce salvare i suoi personaggi da quel male velenoso
che resta in agguato ogni volta che l'emigrazione diventa oggetto di
narrativa. Una malattia spesso incurabile, ovvero l'asfissia di sentimenti
gravosi e solitari, difficili da raccontare come lo sono la nostalgia, il
vittimismo, la colpa, il senso d'inferiorità. E che in letteratura possono
cedere alla rischiosa tentazione del melodramma. Esistono anche nelle storie
di “Il muro dei muri”, questi oppressivi sentimenti, e non potrebbe essere
altrimenti. Ma ai “germanesi” di Carmine Abate, e con loro ai figli, i
nipoti, le mogli e le fidanzate, non manca l'aria. Al contrario, il lettore
respira insieme ai personaggi, si scopre solidale in quella umana,
universale condizione di “vita capovolta”. I piedi in un posto, la testa
altrove. E le tenere, ingenue speranze giovanili che s’induriscono, mentre
in una terra sconosciuta, “si diventa rovi”.
Lo scrittore di Carfizzi, emigrato da ragazzo con la famiglia, sussurra
racconti uniti tra loro da un filo, lungo il quale anche chi non porta nella
memoria le cicatrici di una partenza può riconoscere eventi della vita
familiari all’animo. C'è il figlio di un emigrante che trasforma il padre in
un “idolo lontano”, circonfuso di ammirazione e debolezza. Ma l'idolo lo
ammonisce di imparare a far bene almeno una cosa per non diventare un
“ciuccio” che va solo dove vuole il padrone. E gli fa giurare di non partire
mai, perché quando si parte non si ritorna più. C'è il giovane costretto ad
emigrare per pagarsi la casa dove andrà a vivere con una fidanzata che non
ama più. E parte a malincuore, perché non ha in testa ambizioni di studio o
potere. Lui vorrebbe soltanto lavorare all'aria aperta nei campi, perché «se
tutti studiamo, chi la coltiva questa nostra terra? Chi ci dà pane e
companatico?». C'è l'operaio emigrato che attende il ritorno in paese per
vantarsi con gli amici di un incontro erotico con una peep-show girl del
quartiere a luci rosse di Sankt Pauli. Non dirà, però, che la
spogliarellista è un'emigrata con i segni delle sue stesse ferite e
umiliazioni, una che per la strada i tedeschi osservano in “modo strano”
perché non è una di loro. C'è la difficile scelta tra il ritorno e l'amore
incontrato in Germania, due felicità a cui ugualmente non s'intende
rinunciare. C'è la leggenda meridionale
del tesoro scomparso, una caccia al tesoro di ragazzini nella campagna
assolata, in lotta contro gli spettri di spaventosi pipistrelli guardiani.
C'è la paura delle spedizioni razziste contro gli stranieri,
dell'interminabile strada buia verso l'alloggio in quella terza sera che
potrebbe essere l'ultima per ogni emigrante. E c'è il vuoto di aver perduto
per sempre le radici, e con esse l'esistenza, rimanendo in gabbia come una
bestia impazzita. «Né qui, né lì - dice al nipote l'anziano Zu Pietro - se
potessi decidere io, sparirei». Ancora alto su tutte queste vite si
erge “il muro dei muri”, quello costruito dall'intolleranza e dall'odio, il
vero nemico della nostra società multiculturale che tenta di abbattere le
sue barriere. Senza più picconi, ma con la sola forza di parole dagli
accenti discordanti, che messi insieme, per incanto, risuonano in armonia.