Il Mucchio Selvaggio

ottobre 2006

Profili
Carmine Abate

  di Gianluca Veltri


  È tutta una questione di sguardo. Non fosse emigrato prima in Germania e poi in Trentino, dove vive, difficilmente Carmine Abate avrebbe inventato il ciclo di Hora. Elogio (letterario) dell’emigrazione, forse. Non sarebbe riuscito a stabilire la distanza giusta tra sé e quel microcosmo: il paese sulla collina, la campagna riarsa, i boschi di lecci, le ginestre, gli oleandri, gli ulivi, le viti, l’afa densa dell’estate. L’invidia malcelata dei vicini, le feste, la povertà e le provviste alimentari. Terra avara e traditora, dove però i fichi nascono anche sui muri delle case vecchie.

Hora esiste, anche se nella realtà si chiama Carfizzi, il paese natale di Abate. È un centro arbëresh in provincia di Crotone, la Kona, le stradicciole delimitate da cardi polverosi, la piazza inzuppata dal sole, sulla collina s’incrociano i venti dalla Sila e dal mare Jonio. Un tempo infinito che scorre lento, racchiuso tra il grande fuoco di Natale e la festa di Santa Veneranda a fine luglio. Hora/Carfizzi, che si rianima alla Festa del ritorno, quando riapprodano per le vacanze estive gli emigranti, è abitata dai discendenti degli albanesi che 500 anni fa, dopo la morte del condottiero Skanderbeg, sfuggirono ai turchi rifugiandosi in Calabria e in altre regioni dell’Italia meridionale. Gli arbëresh hanno conservato la loro lingua, un albanese antico calabresizzato, e la fiducia nella loro memoria, pur non rinunciando a integrarsi nella terra che li ha ospitati.

Abate è il cantore delle diaspore e della necessità di non disperdere il proprio passato. Perché gli abitanti della piccola Arbëria sono marcati da un doppio destino di lontananza: i loro nuclei nascono dall’esilio, dalla fuga. Ma queste comunità sono a loro volta decimate dall’emigrazione. Paesi costruiti da profughi fuggiaschi che si svuotano, assumono il profilo del distacco tra gli emigranti e le loro famiglie, i parenti, il vicinato.

Una diaspora al quadrato.

Tutto questo perché sia più chiaro il mondo di riferimento dello scrittore di Carfizzi. Ma nei libri di Abate, pluritradotti e pluripremiati, non troverete né sociologia, né l’edulcorazione di un passato da beatificare, né tanto meno il lamento meridionale per la povertà e la lontananza. Niente di tutto questo.

Abate ha eletto come metodo quello che lui chiama lo sguardo di mezzo. Finché viveva in Germania, lo scrittore avvertiva eccessiva distanza dai luoghi natali. Poi prese una cartina geografica e decise: il punto ideale a metà strada tra Amburgo e Scarfizzi era un paesello valligiano del Trentino. Da lì, Abate guarda alle cose di Hora con occhio tenero e obiettivo, non troppo doloroso ma neanche avulso, con una dose di nostalgia che non diventa struggimento. Hora, nei giudizi degli osservatori, è una sorta di Macondo marqueziana trasferita nel Marchesato crotonese. Un mondo mitizzato in narrazioni epiche, saghe famigliari che si inseriscono dentro pieghe di secoli, tremolante tra la storia, le tramandazioni orali e la leggenda del Moti i Madh, il Tempo grande.

Più che a Marquez però – che Abate confessa di non aver letto, prima, andandolo a scoprire poi – l’accostamento più appropriato della via calabro-arbëresh al realismo magico è con Salman Rushdie. Si reinventa una comunità, senza ricorrere a una mitologia esterna, ma trasfigurandone gli eventi. Sopra i fatti tramandati e macinati dalle rapsodie costanti dei cantori, dall’ipnotica affabulazione degli anziani, c’è l’ala di un passato che non è di pietra, che va fatto proprio di continuo. Abate, con parole di Elias Canetti, si definisce scrittore in quanto “custode della metamorfosi”: aperto verso il futuro, perché altrimenti il suo ruolo sarebbe solo museale. Come Rushdie, Abate ha trovato una nuova casa lontano da dove è nato, ma ha anche dovuto cambiare lingua: parlava in una, scrive in un’altra (l’arbëresh starebbe così all’indiano come l’italiano all’inglese). Ma non si può dire tout court che Abate scriva in italiano; piuttosto che ha inventato una nuova lingua letteraria, qualcosa che prima non esisteva. Una lingua mescidata, per Massimo Onofri, prevalentemente italiana, ma con una costruzione che risente della lingua madre, ricca di un’immediatezza vivida che l’italiano letterario non possiede, infarcita di arbëresh nonché di dialetto calabrese. Le parole arbëresh s’impigliano nella pagina; quand’è così significa che quell’espressione non è traducibile in italiano. Un pezzo di Hora ha attraversato lo sguardo di mezzo e si è sistemato nel racconto.

È evidente che un elemento cruciale dei romanzi di Abate sia l’identità. Nell’ultimo romanzo Il mosaico del tempo grande si rievocano le gesta dei padri fondatori della piccola Arbëria, quando i primi profughi trovarono rifugio nelle terre calabresi, senza abbandonare la speranza di tornare in Albania, come ogni esule. Abate fa dire al papàs, il capo carismatico della comunità: “Ormai questa terra è anche la nostra. I nostri figli e nipoti hanno bisogno di certezze e sogni, di sentire i loro piedi su una terra amica”. È istruttiva la visione autorevole degli avi, rivista alla luce dell’emigrazione: la ricerca della stabilità e la necessità di fare pace con la realtà prevalgano sull’ostinazione della malinconia.

“Per i tedeschi io ero naturalmente uno straniero”, racconta Abate riferendosi alla sua esperienza di emigrante. “Per gli altri stranieri che vivevano là, ero un italiano. Per gli italiani emigrati in Germania, i cosiddetti germanesi, ero un meridionale. Per gli altri meridionali, un calabrese. Per i calabresi, un ghiègghio, cioè un arbëresh. E infine per i miei compaesani, quando ritornavo da loro, ero un germanese”.

Ognuno è una somma di identità, non ci esauriamo in una sola appartenenza: sarebbe (ed è) l’idiozia dell’intolleranza, sarebbero le classificazioni care agli ultrà dello scontro di civiltà. Lo scrittore e i suoi personaggi sono spugne, pronte ad acquisire radici nuove che si intrecciano alle radici vecchie. Sono arbëresh, sono calabresi, sono italiani, sono germanesi, sono meridionali, sono ghiègghi. Sono il frutto di un patrimonio luminoso e traumatico di rapsodie e storie e leggende che non si è perduto; sono uomini e donne, e giovani, in cerca di un posto nel mondo. Non sono soli, perché hanno il respiro dell’epica dietro di loro. È “l’uomo a più identità” che auspica anche il Premio Nobel Amartya Sen.

Abate è uno scrittore del tutto atipico nel panorama per lo più minimalista della letteratura italiana: sospesi tra la mitologia del passato e la crudezza contadina, i suoi romanzi sono intarsiati tra fascinose intermittenze spazio-temporali, pieni di andirivieni e incastri. Trovi le citazioni della musica leggera, le lotte per gli espropri agrari, nomi di persone reali contemporanee, segni dell’attualità, ma la sua è una letteratura che tende ad affrancarsi dai legami del presente storico. Perché è epica. Si può dire che con i cinque romanzi fin qui pubblicati, lo scrittore calabrese stia componendo un ciclo di Hora unico, conchiuso. Un corpus rapsodico compatto. La festa del ritorno è il mondo visto dalla parte di un bambino: la vita scandita dai ritorni annuali del padre a Hora, l’ombra di un futuro incomprensibile. “Mia madre mi faceva la testa acqua con questa storia della vita di sacrifici che mio padre sopportava in Francia per tutti noi, per il nostro futuro. Solo che non potevo accettarla, questa storia. La trovavo ingiusta e crudele. Il futuro, per un bambino, è una parola vuota”. La nostalgia non è solo dell’emigrante che, auspica Abate, è in grado di costruire una rete di relazioni e di identità nel nuovo mondo; la nostalgia è anche quella di luoghi mai visti, radici negate, tempo perduto, padri assenti. Affresco famigliare contadino perfetto è Il ballo tondo: la famiglia del Mericano, cosiddetto per il suo viaggio in America (che si rivelerà millantato) sulla tomba del padre. Mericano di soprannome, ma in realtà germanese. I primi viaggi in treno sono massacranti; poi comincia a tornare in Mercedes. Anche qui il punto di osservazione scelto è quello del figlio più piccolo.

I padri di Hora sono enormi, forse perché visti dal basso, dall’occhio dei figli che li aspettano per mesi e mesi al paese. Sono padri alla Tim Burton, stile Big Fish, per l’enfatica capacità di riempire ogni spazio: il padre minatore de La festa del ritorno; il Mericano che lavora in una fabbrica tedesca; lo Skanderbeg ribelle e fiero – “mio padre era forte, il più forte di tutti” – morto quando il figlio aveva otto anni e idealizzato, ne La moto di Skanderbeg. Ma in fondo anche Giorgio Bellusci e Antonio Damis, le figure maggiori che si stagliano in Tra due mari e Il mosaico del tempo grande, sono, d’anagrafe e metafora, padri. Tornano, inondano di sé la casa e il paese, i calendari di laggiù sono regolati sui loro ritorni.

Quando arriva il Mericano dalla Germania, dai suoi valigioni sgorgano cravatte a pois, cioccolate squagliate per il caldo, sigarette, camicie di nylon. Quando arriva il Mericano, si riversano nella sua casa da tutti i vicoli di Hora. “Il Mericano aveva questo potere da mago: faceva sparire i problemi, li soffocava con la sua presenza fisica”. I padri di Hora vanno cercati, aspettati, sono inquieti e magniloquenti, impazienti, hanno occhi famelici e ardenti.

L’arrivo di Antonio Damis viene atteso per tutto il libro (Il mosaico del tempo grande): è il padre di Laura, una ragazza giunta dall’Olanda a Hora. Abate costruisce attorno a lui un meccanismo di suspence degno di un thriller, dicendo e non dicendo, confondendo il lettore con continui rimandi cronologici e sfalsamenti. Sono padri impetuosi e fragili, attaccati a un sogno che è un ritorno e un cimento da completare: quello di Giorgio Belluscio, in Tra due mari, è di restaurare il Fondaco del Fico, una locanda in rovina da cui passò Alexandre Dumas. Il sogno del Mericano (ne Il ballo tondo) è sistemare due figlie femmine e ristrutturare “il castello più piccolo del mondo” che ha acquistato dai nobili del feudo. Il cimento del padre in La moto di Skanderbeg è quello di “capovolgere il mondo”, per renderlo più giusto. E il compito di Gojari, il mosaicista (padre morale) che compone la storia in Il mosaico del tempo grande per icone da giustapporre, è completare la rapsodia che ci salda al tempo dei fondatori: “se il tempo sembra essersi bloccato lì, se fra allora e oggi c’è un vuoto di memoria, noi abbiamo il dovere di riempirlo e andare avanti”.