L'UNIONE
SARDA
5 agosto 1999
Era l'unico nel paese ad avere la moto. Passava fra la gente in sella all'indistruttibile Guzzi Dondolino, impolverato dalla testa ai piedi e bianco come un fantasma. Era la guida della folla cenciosa che andava a occupare le terre abbandonate nei fondi da seminare. La gente lo chiamava Scandeberg, come il mitico eroe dell'indipendenza albanese. La moto di Scandeberg (Fazi, pp. 197, lire 25.000), è il nuovo romanzo di Carmbine Abate, terzo ciclo della saga sugli albanesi di Calabria. Abate aveva esordito nel 1991 con "Il ballo tondo", nel 1993 ha pubblicato la raccolta di racconti "Il muro dei muri". Sin dall'inizio lo scrittore ha subito il pregiudizo di molta critica che frettolosamente considera la letteratura dell'emigrazione come letteratura di serie B. Eppure, sin dal romanzo d'esordio, era evidente il talento di questo romanziere che scrive in una lingua originale, un italiano contaminato e meticcio, dando voce, attraverso i suoi personaggi, a storie sospese fra presente e memoria, registro lirico e narrazione. Trilingue e giramondo, calabrese d'origine (è nato a Carfizzi, paese d'antica storia albanese), emigrato in Germania, residente in Trentino, studioso dell'emigrazione e insegnante nelle scuole medie, Carmine Abate fa rivivere la leggenda del grande condottiero, ascoltata da bambino, dentro la storia del Sud. Quello dell'occupazione delle terre, dei morti di Melissa, degli eroi contadini. La trama si sviluppa attraverso un intreccio di storie parallele, Giovanni Alessi è il figlio di Scandeberg, ed è sempre in fuga. Dalla sua famiglia, dal suo paese, dove è nato e cresciuto, dai fantasmi del suo passato, dalla sua lingua, dal ricordo del padre che morì a trentacinque anni cadendo in un burrone per vincere una scommessa. Giovanni si è rifugiato in Germania per raggiungere Claudia, lavora dapprima come posapietre con uno zio, poi inizia a collaborare alla radio dove lavora la sua ragazza. E in Germania torna con la memoria a ripensare la sua storia e la storia di suo padre Scandeberg, leader delle rivolte contadine nell'Italia del dopoguerra. Attraverso l'epos della leggenda l'eroe albanese rivive nel padre di Giovanni: il mito fondatore della grande epica albanese si reincarna nella figura di questo eroe strampalato, simboleggiando il rifiuto dell'ingiustizia e il desiderio di capovolgere il mondo che anima gli emigranti albanesi e i leader delle occupazioni delle terre. A questo mito Abate affida la funzione di ricomporre un'identità multipla, altrimenti dispersa, i pezzi della propria storia: l'uomo meridionale, l'arberesh (il termine indica la comunità albanese dell'Italia meridionale), l'emigrante che si lascia dietro un pezzo di storia per viverne altre, in Germania, in Svizzera, nei paesi del Nord Europa. In realtà la storia minoritaria degli arberesh, il loro bilinguismo, sta diventando quella universale della contemporaneità, e se si chiede a Carmine Abate che cosa prova davanti alla tragedia del Kosovo, risponde: «Gli arberesh sono diversi dai kosovari e dagli albanesi, sono vissuti per cinque secoli in un contesto completamente diverso. Siamo uomini del Sud d'Italia a tutti gli effetti, nonostante la lingua diversa. Eppure guardi gli albanesi e i kosovari come fratelli separati, cresciuti in famiglie diverse. Il sangue resta lo stesso, e quando dico sangue, intendo la memoria storica, i miti fondativi dell'identità: Scandeberg». |