La Gazzetta del Mezzogiorno
1 gennaio 1999
 


Padri e figli su due ruote
di Michele Trecca


   C'è un sedimento ancestrale in ogni meridionale, un corredo genetico di immagini e situazioni di vita e colori e profumi e suoni che sono identità collettiva e attraversano le generazioni, da sempre. Il Sud che t'aspetti: "La moto di Scanderbeg" di Carmine Abate ti dà esattamente questo, solo questo, ma arricchito da un'ampia articolazione interna di romanzo sentimentale e di formazione. Carmine Abate, calabrese di Carfizzi, paese di origine e cultura albanese dove ancora oggi si parla l'arbëresh, ha studiato a Bari, è vissuto a lungo in Germania ed oggi si divide fra Trento e la terra natale. Nei suoi precedenti lavori (Il ballo tondo e Il muro dei muri) ha sempre raccontato dei "permanesi" e in particolare di quella nuova lega di post-emigranti costituita dai figli degli italiani nati e cresciuti all'estero. Ad essi ha anche dedicato scritti in tedesco, studi sociologici e inchieste giornalistiche. Carmine Abate, come loro, è uomo al confine di due mondi: come Giovanni Alessi, protagonista del suo nuovo romanzo. Il quale, dopo l'università, fugge da Hora, dove è nato, e raggiunge a Colonia la ragazza amata sin dal liceo. Ma la sua scelta radicale e irreversibile è tutt'altro che una rottura col passato. E', anzi, l'avvio di un percorso inverso. Al viaggio nello spazio si contrappone, infatti, quello nel tempo: l'uno allontana Giovanni dalla propria terra, l'altro lo riporta alle radici della sua storia. "La moto di Scanderbeg" è un romanzo su più piani. C'è la vicenda di Giovanni e c'è quella del padre. Con felice ambiguità il titolo appartiene ad entrambi. La Guzzi Dondolino (che da sola vale il prezzo di copertina: "Era nata nel '46, eppure non aveva un graffio, la carrozzeria rosso rubino luccicava come nuova…") passa, infatti, dal genitore al figlio così come quel soprannome (Scanderbeg) che rinvia a sua volta a un altro tempo ancora, a quello "Grande" della storia con la esse maiuscola. Giovanni, dunque, a Colonia vive l'amore con Claudia ma soprattutto rivive la storia del padre. Perde l'una e ritrova l'altro. Claudia, infatti, si trasferisce a Milano per seguire l'irto percorso della propria carriera giornalistica (che sarà brillantissima). Giovanni, invece, resta nella città natale per meritare il soprannome del mitico condottiero albanese ereditato dal padre che se lo era guadagnato sul campo guidando le rivolte contadine negli anni incandescenti del dopoguerra. Giovanni lotterà per i "germanesi" con la scrittura. Anche la sua, quindi, come quella del padre e della madre, sarà una vita di fedeltà. Fedele ai "suoi" era stato il padre che aveva saputo tener saldo l'amore per la famiglia e per la propria terra nonostante l'intensa avventura sentimentale con una "teatrista" e il sogno di una vita lontano incarnato dalle scorribande sulla Guzzi Dondolino. Ancor più ferocemente fedele al suo uomo, di una fedeltà quasi tribale, è la madre di Giovanni che per tutta la vita non rivolgerà più la parola al fratello colpevole di averle suggerito di risposarsi dopo la precoce morte del marito. E fedele ai "suoi" sarà anche Giovanni che per scrivere il proprio libro rinuncerà a Claudia e a un lavoro sicuro e gratificante. Carmine Abate ha il gusto e il talento della narrazione polifonica e dell'intreccio corale, ma gli manca il coraggio e la forza linguistica per varcare il confine dei luoghi sacri della tradizione tentando soluzioni meno convenzionali. "La moto di Scanderbeg", quindi, rischia di avere sul lettore lo stesso effetto che ha su Giovanni la furia erotica di una contadina: "Da sotto le ascelle le colava il sudore che a volte mi gocciolava sulla fronte e sulle labbra. Osservavo questa scena come se l'avessi vista chissà dove, e perciò non ero eccitato al massimo; lei stava cavalcando da dieci minuti e in quelle condizioni avrebbe potuto continuare per ore, difficilmente sarei venuto".