Le Calabrie
1 gennaio 1999
 


Uno scrittore europeo 
di Franco Vallone


   Vibo Valentia, aula magna dell'Università Umania, domenica 11 aprile 1999, il Sistema Bibliotecario Vibonese organizza un interessante incontro con l'autore arbereshe, calabrese, italiano, europeo, Carmine Abate. Introdotto da Gilberto Floriani e presentato da Luigi Maria Lombardi Satriani e Vito Teti sono successivamente intervenuti Corrado Iannino, Gaetano Luciano, Concettina Mazzei, Salvatore Vetrò e Clorinda Nocera D'Aco. Ma conosciamo meglio l'autore del nuovo libro "La moto di Scanderbeg" dell'editore Fazi di Roma. Carmine Abate è nato il 24 ottobre del 1954 a Carfizzi, un paesino di origine albanese in provincia di Crotone. Figlio di emigrati, dal 1971 ha cominciato a fare la spola tra il paese e Amburgo, dove ha trascorso in famiglia le vacanze estive lavorando in fabbrica e nei cantieri. Ha frequentato l'Istituto Magistrale di Crotone e l'Università di Bari, laureandosi in Lettere all'età di ventun anni, con una tesi sull'interpretazione del Boccaccio alla "Divina Commedia". Dal 1976 insegna per breve tempo al suo paese natale, poi in Valtellina, a Bielefeld, in Trentino, ad Amburgo, Bremem, Bremenhaven, Lubecca, di nuovo in Trentino e dal 1987 a Colonia, dove insegna italiano ai figli dei nostri connazionali emigrati. Dal 1980 si è stabilito in Trentino, a metà strada tra la Calabria e la Germania. Ha esordito a 23 anni con una raccolta di poesie dal titolo "Nel labirinto della vita". A 29 anni, nel 1984 ha pubblicato in Germania il suo primo libro di narrativa, "Den Koffer und weg!" (La valigia e via!), una raccolta di racconti incentrati sul tema dell'emigrazione. Dall'estate del 1979 ha cominciato a svolgere una ricerca socio-antropologica sull'emigrazione assieme ad una giovane sociologa tedesca, Meike Behrmann. I risultati sono stati pubblicati nel 1984 in Germania, dalla Campus Verlag di Francoforte con il titolo "Die Germanesi" e introdotti da Norbert Elioas, sociologo di fama internazionale, e nel 1986 in Italia: "I Germanesi. Storia e vita di una comunità calabrese e dei suoi emigranti". E' stato tra i fondatori della Polikunst, un'associazione polinazionale di scrittori e artisti stranieri residenti in Germania. Con Meike Behrmann dirige la "Biblioteca Emigrazione", presso Pellegrini di Cosenza, per la quale ha curato nel 1987 "In questa terra altrove", un'antologia di testi letterari di emigrati italiani in Germania, presentata da Tullio De Mauro. Nel 1991 è uscito il suo primo romanzo "Il ballo tondo", (Edizioni Marietti) tradotto e uscito recentemente anche in Germania, Kosovo e in Albania. Nel 1992, ha raccolto in due volumetti, "Dimore" e "Di noi", le sue poesie, molte delle quali già uscite in tedesco e incentrate soprattutto sul mondo dell'emigrazione. Su questo argomento ha scritto un volume di racconti dal titolo "Il muro dei muri", che uscirà nel settembre del 1993. Poesie e racconti sono stati inclusi in più di venti antologie, soprattutto in Germania; e alcuni suoi testi sono stati tradotti in tedesco, albanese, francese e inglese. Nel 1996 è uscita una nuova, più completa edizione delle sue poesie con il titolo "Terre di andata", presso Argo di Lecce. Il libro contiene anche testi plurilinguistici (italiano, tedesco, arbereshe) e "proesie". La produzione letteraria di Abate ha alla sua base il contatto e, a volte, il conflitto tra le lingue, le culture e le tradizioni letterarie. I personaggi e i luoghi dei suoi libri sono attraversati più o meno consapevolmente da questo plurilinguismo e multiculturalismo. Dirige, inoltre, la collana di narrativa "La scuola che scrive" (Editino Giambusso, Froendenberg) per la quale sta curando la ristampa di un romanzo scritto dai suoi alunni: "Una gita memorabile" (giugno 1998). Carmine Abate è sposato con Meike Behrmann, ha due figli e ama vivere tra la Germania, il Trentino e la Calabria. A fine lavori abbiamo posto a Carmine Abate alcune domande: Professore Abate lei oramai è un autore di fama internazionale con un'anima calabrese, anzi arberesche, ma che si occupa anche delle minoranze straniere in Germania. Nel pieno attivismo della cultura europea ha un senso per lei parlare di minoranze etniche? Io appartengo alla minoranza arberesche. Gli arberesche sono i discendenti di una popolazione albanese che arrivò in Italia alla fine del 1400 per fuggire dai Turchi. Quanti siete? Siamo circa centomila, sparsi in numerosi paesini del Sud, da cinquecento anni continuiamo a parlare la lingua albanese com'era nel 1400. Ho saputo da alcune ricerche fatte che questa lingua con il passare degli anni sta cambiando, si sta per così dire "italianizzando" c'è un rischio che vada perduta? Mi fa paura la museizzazione di questa nostra antica cultura. Senza nostalgia e senza gridare alla catastrofe se la lingua si sta modificando o come dicono i pessimisti snaturando. La lingua si sta arricchendo di parole nuove e moderne che provengono dall'italiano perché nell'albanese antico non c'erano. Museizzazione come fredda bacheca espositiva di un prodotto ancora vivo della cultura? Si, rinchiuderla in un museo, in un ghetto senza vita. Come quando si recupera la "Coha", il vestito tipico, riducendolo a fatto esotico buono per i turisti. Non ha paura della contaminazione linguistica dell'arbereshe? No, se una lingua è viva non può conservarsi pura. La mia gente da cinque secoli continua a parlare arbereshe e questo se ci si pensa è un miracolo: nella scuola si parla solo italiano, il trenta per cento della popolazione emigra, il linguaggio televisivo imperversa. Eppure tutto ciò non intacca il cuore della lingua, la sua struttura, la sua sintassi. Una minoranza non può mai essere autosufficiente, è spinta ad incontrare sempre qualcun altro. Gli arbereshe sono riusciti a sopravvivere per cinque secoli solo grazie ai contatti, agli scambi culturali, ai matrimoni misti. Lei è stato emigrato in Germania per quindici lunghi anni… Un Arbereshe l'emigrazione ce l'ha nell'anima, per lui è una storia antica che ritorna, il lasciare la terra d'origine… Dunque lei da Arbereshe è diventato "Germanese"? Per i tedeschi ero uno straniero; per gli altri stranieri, i turchi per esempio, ero un italiano; per gli italiani ero un calabrese; e per i calabresi ero un "gjieggjo", il termine dispregiativo con cui si indicano gli Arbereshe.