Calabria
11 gennaio 1999
 


Ai confini del Sud con la moto di Scanderbeg
di Annarosa Macrì


   "Mi sono precipitato all'aeroporto di Koln-Bonn come un automa. Era un altro me che faceva il biglietto, prendeva l'aereo, scendeva a Fiumicino, risaliva sul volo per Lametta, e da qui, con un taxi, arrivava ad Hora, stordito…" Provo e riprovo, ma non riesco più a seguire Giovanni Alessi ad Hora, stordito, che si precipita al letto della madre morente. Il suo dolore "così disastroso, che gli frana dentro, fisico, rumoroso, nei polmoni, nelle viscere, nel cuore" non riesco a reggerlo, e piango se solo provo a rileggerle, quelle pagine. Sarà l'effetto di quella che Carmine Abate definisce "letteratura emotiva", io non lo so, so solo che la stessa impossibilità di rileggere i tratti di un volto di donna stupefatto dal dolore ho provato per l'emozione davanti al piccolo "Cristo sepolto" del Mantegna della Pinacoteca di Brera, oppure davanti ad un'altra Pietà, quella ancora trattenuta nella pietra della Rondinini michelangiolesca del Castello Sforzesco. Qui è una Pietà rovesciata - il Figlio franato dal dolore per la morte della Madre - ma lo stesso spaurimento di fronte al mistero, la stessa solitudine senza ritorno di fronte all'assenza, lo stesso urlo impotente di fronte alla morte. "Chi vengo a trovare a Hora se non ci sei tu, due tombe?", chiede disperato Giovanni alla madre che ormai non può più rispondergli. Lui sa che ha perso definitivamente insieme alla madre il Luogo in cui ritornare. Ed è proprio il romanzo dell'impossibile ritorno, questa "Moto di Scanderbeg", il romanzo che racconta meglio di qualunque saggio "la testa" degli emigrati di seconda e terza generazione, il romanzo che fa definitivamente di Carmine Abate il più interessante, il più originale e il più maturo tra gli scrittori quarantenni calabresi. Anzi, tra gli scrittori quarantenni. Anzi, tra gli scrittori e basta. Il ritorno è davvero impossibile se il luogo da cui si è partiti è ormai svuotato di facce che ti calamitano, di voci che ti chiamano, insomma di affetti. Non basta l'appartenenza al suo dialetto, o al suo paesaggio, o ai ricordi, perché diventi il luogo del ritorno da vivi. Probabilmente è il luogo in cui è giusto tornarci solo quando si è morti. E Giovanni, lui, è vivo. Giovanni fa il giornalista ma non a tempo pieno, in Germania, dove è arrivato per seguire il suo amore di sempre, Claudia. Giovanni è nato in Calabria, ma non ci è rimasto. Giovanni è calabrese, anzi non tanto, perché la sua famiglia è arbereshe. Giovanni in Germania è uno straniero, ma non tanto, perché proprio in Germania vive suo zio. Giovanni è stato uno studente, ma non si è laureato. Giovanni è stato un operaio, ma è stato licenziato. Giovanni ha amato forsennatamente suo padre, ma lo ha perso presto. Giovanni vive adesso in Germania, ma forse se ne andrà. Giovanni ha addosso un presagio o forse una maledizione: morrà giovane, anzi giovanissimo. Ma forse non è vero. Giovanni in mezzo del cammin della sua vita decide di dare unità alla sua vita a pezzi, non ha altro mezzo che la parola e così decide di raccontarla, la sua storia. Per farlo sale in sella alla Guzzi Dondolino di suo padre, anzi diventa forse lui stesso suo padre, d'altra parte tutti al paese lo chiamano Scanderbeg, proprio come chiamavano suo padre, ch'era un po' eroe, come lo Scanderbeg del "Tempo grande" e un po' donchisciotte. Da eroe delle lotte contadine ha vissuto, da guitto donchisciottesco è morto, andando a sfracellarsi alla parete di una montagna, solo per acchiappare, per una inutile poetica scommessa, un nido di uccelli. Non aveva capito che se senti le Sirene cantare - e quegli uccelli sono le sirene - devi farti incantare solo da lontano, e non cercare di raggiungerle, sennò perdi tutto, anche te stesso. E la terra dove si è nati è una sirena, canta con la tua stessa lingua, ha l'odore della tua infanzia, il colore di quando eri bambino. T'inebria e ti stordisce, ma è una Sirena, e guai a farsene inebriare. E invece perfetto è l'uomo "per cui l'intero mondo è un paese straniero". Lo dice Ugo da San Vittore, dodicesimo secolo. Giovanni Alessi ne fa il suo programma di vita, anzi il filo narrativo del suo cammino a ritroso nel Tempo Grande delle parole: "L'uomo che trova dolce il luogo natale è ancora un tenero principiante; quello per cui ogni suolo è come il suolo nativo è già più forte; ma perfetto è l'uomo per cui l'intero mondo è un paese straniero." La moto cerca da sola il percorso della memoria, ma lui, Giovanni Alessi, l'io narratore, non riesce a reggerne in mano il bandolo. I narratori ottocenteschi erano onniscienti. Sapevano tutto. Armati di terza persona e passato remoto raccontavano fatti e pensieri, emozioni e sensazioni. Giovanni non sa niente neanche di sé. I pezzi della sua vita sono come le facce di un caleidoscopio fatto di specchi. Lo rigiri tra le mani e non sai più qual è la faccia principale. Lo diventa quella che prende luce, e mette in ombra le altre. Così ogni faccia del caleidoscopio, e ogni volto che ruota intorno a Giovanni si racconta, quando è presa dalla luce, o racconta la sua "versione della storia", a cui ha assistito o che ha a sua volta sentito dire. Si racconta con il suo linguaggio, colto o volgare, dialettale o contaminato, espressivo e allusivo: nel romanzo ci sono tanti vocabolari e tante sintassi linguistiche quanti sono i personaggi, e i protagonisti delle storie non sempre raccontano di se stessi in prima persona: vengono viceversa a loro volta "raccontati". Ne viene fuori un raffinatissimo costrutto narrativo, pieno di rimandi cronologici e di flash back, di quadri inaspettati e di metaforiche larghe parentesi tonde e quadre che aprono squarci dentro le vite narrate, e fanno di semplici comparse comprimari del racconto.