Atelier
6 gennaio 1999
 


Carmine Abate, La moto di Scanderbeg 
di Roberto Carnero


   Finalmente la pubblicazione di questo nuovo romanzo con un editore come Fazi consentirà a un più ampio pubblico di conoscere uno scrittore a dir poco "eccezionale" come Carmine Abate. Non uso questo aggettivo per un'iperbole elogiativa, ma in senso etimologico, per definire il particolarissimo percorso esistenziale e letterario dell'autore. Nato nel 1954 a Carfizzi, un paesino di origine albanese in provincia di Crotone, figlio di emigranti, Carmine Abate ha vissuto tra il paese natio, la Germania e il Trentino (dove attualmente risiede). Prima di questo romanzo, la sua produzione si è alternata tra poesia, narrativa e ricerche socio-antropologiche sugli emigranti italiani in Germania, e sue opere sono state tradotte in Germania, Albania e Kossovo. Il titolo La moto di Scanderbeg presenta il nome del leggendario Scanderbeg, il patriota albanese del Quattrocento, eroico difensore dell'indipendenza della sua terra dal dominio turco. Ma Scanderbeg è anche il soprannome del padre del protagonista del romanzo, Giovanni Alessi, così chiamato per il suo ruolo di leadership durante le occupazioni delle terre da parte dei braccianti in attesa della riforma agraria dopo il secondo conflitto mondiale. La vita del padre di Giovanni, fascinoso condottiero moderno, con la sua mitica moto Guzzi Dondolino, in sella alla quale torna trionfante al paese dopo il servizio militare, fino alla morte prematura per una pazza scommessa tra amici, è riletta tenendo in filigrana la figura dell'eroe quattrocentesco, di cui vengono rievocate le gesta. E il padre, conosciuto solo per poco, è un punto di riferimento costante, pur in absentia, per Giovanni, che, sulla scorta dei racconti della madre, degli amici e dei parenti, ne ricostruisce a poco a poco, con il passare degli anni, la forte fisionomia morale, come quella di un modello a cui chiedere conforto ed ispirarsi nei momenti difficili. L'originalità di questo romanzo risiede innanzitutto nella dimensione corale della narrazione, per la quale non dovrà sembrare azzardato un accostamento ai Malavoglia verghiani. Ciò è evidente nella descrizione del funerale della madre di Giovanni: «Riuscivo a intravedere [...] tutto il paese stretto nello spiazzo davanti a casa mia e lungo la strada in salita. Non distinguevo singoli volti, singoli corpi, ma il volto e il corpo di Hora che ondeggiava triste dietro una piccola parte di sé, morta». E ancora: «Il vuoto dentro mi si è aperto al ritorno dal cimitero. Ed è cresciuto sempre di più mentre ricevevo le condoglianze della mano enorme del paese. Uno dopo l'altro, un pezzo dopo l'altro, si staccavano dal corpo di Hora per darmi la mano o abbracciarmi o baciarmi, e si ricomponevano più in là, lontano da me». Inoltre la voce che parla di sé in prima persona, quella di Giovanni, è solo una delle tante che si intersecano e si accavallano nel riprodurre la coralità della comunità umana di Hora: Lidia, la madre di Giovanni, che rievoca le vicende del suo intensissimo amore per Scanderbeg, al quale, pur essendo rimasta vedova giovanissima e con un figlio piccolo da mantenere, si conserverà fedele fino alla morte; lo zio Mario, emigrato a Colonia per trent'anni, che ritornerà ad Hora per godersi gli ultimi anni di vita nella terra in cui era nato, con i suoi saggi consigli e con il suo italiano e il suo tedesco entrambi sgrammaticati (un po' meglio va con l'arbëreshë); Stefano Santori, il ragazzino «dagli occhi di calamita», capace di spostare gli oggetti per telecinesi, che predice a Giovanni, leggendogli le pieghe del collo, una morte a trentasei anni (profezia che non sapremo mai se si invererà, perché alla fine del romanzo, dopo il funerale della madre, Giovanni sparirà per sempre senza lasciare traccia di sé). Parallela a questa complessità di sguardi, di punti di vista, di voci, corre un'altrettanto complessa organizzazione del tempo narrativo, con incroci di tempo principale, analessi e flash-back: la gioventù del padre di Giovanni, l'infanzia di Giovanni a Hora, gli anni universitari a Bari, i periodi tedeschi, le varie fasi del rapporto di Giovanni con Claudia, ecc. Tutto ciò produce sul lettore la suggestiva impressione di entrare progressivamente sempre più a fondo nell'edificio romanzesco e nel suo mondo, non dalla porta principale, in maniera diretta e frontale, bensì da tante piccole porte di servizio, di lato, anzi all'inizio quasi affacciandosi soltanto da alcune finestre. Man mano che la narrazione procede, sembra di familiarizzarsi a poco a poco con i personaggi e il loro universo storico, culturale e sentimentale. Un universo assai articolato. Anche nel libro di Abate, come in quelli, bellissimi, di uno scrittore quale Guido Conti, entrano le storie, vere e leggendarie, di una comunità. Ma se in Conti il mondo di riferimento è quello della pianura del Po, qui esso non è solo la Calabria, ma è, al tempo stesso, l'Italia (con altre realtà regionali), l'Albania, la Germania. Il tema centrale del romanzo non sarà allora tanto quello del recupero delle proprie radici, quanto piuttosto quello delle terribili difficoltà (ma anche del fascino) dell'avere radici diverse e divergenti. L'identità, sociale e psicologica, andrà allora costruita sul filo di fragili equilibri sempre a rischio di spezzarsi da un momento all'altro. In un'epoca in cui si fa spesso insopportabile retorica di un europeismo a buon mercato, sembra allora che un libro come questo possa dire qualcosa di utile. La tranquillità della vita di Hora – la piazza, il bar Viola, le feste popolari, i "teatristi" e la Guzzi Dondolino di Scanderbeg – è per Giovanni minata in partenza dal consiglio del padre («Se ti dicono di restare, parti. Se ti dicono di partire, resta») e dal tormentato amore per Claudia, che delle "radici" sembra essere determinata a liberarsene. C'è infatti una sostanziale difficoltà ad amalgamare questo radicamento nel proprio territorio d'origine con i mondi lontani e diversi con i quali si viene a contatto. Giovanni ad un certo punto della storia si trova a Colonia, dove si tiene un convegno su «identità culturale ed emigrazione». Deve consegnare un servizio sul convegno alla radio con la quale collabora, ma il compito gli risulta più difficile del previsto: «Non sono capace di scrivere niente di valido. Confesso che stamattina ho preso appunti su appunti quando i relatori accalorati parlavano di Wurzlen (radici), di Identitätskrise, di nationale Zugehörigkeit (appartenenza), di Diskriminierung, di Fremde (estraneità), ma ora non riesco a collegarli. Ho difficoltà a capire questi temi in italiano, figuriamoci in tedesco. Rinuncio. Basta». Più avanti confesserà disarmato: «Parlo tre lingue ma non ne padroneggio neanche una». La ricerca di una dimensione di stabilità si rivela così per Giovanni tutt'altro che facile, anzi fonte di angoscia: «Dove: questa maledetta parolina di due sillabe, due consonanti, due vocali, due anime, come me: la voglia di restare in un dove qualsiasi e la voglia di cercare un dove che non si trova. O meglio: credevo di averlo trovato per un giorno o un mese o un anno, e poi mi soffocava una specie di nebbia, che offuscava ogni mio gesto. Dove? Dove?, mi chiedevo, e non mi davo pace». La difficile storia con Claudia complica ulteriormente le cose: «C'era Claudia e c'era il paese con mia madre, certo, i miei due punti fissi, ma tra di loro erano inconciliabili, i poli opposti di una calamita, che ero io, io che le tenevo strette dentro me». Un'oscillazione insanabile, finché ad un certo punto Giovanni sembra intuire una soluzione, un pensiero che subito butta giù sulla carta e che potrebbe essere assunto a suggello di questa ricerca senza esito: «Perfetto è quell'uomo per cui l'intero mondo è un paese straniero». Almeno finché non arriverà «l'ombra nera di vento».