Il nostro Tempo, 12.03.2006

Il mosaico del tempo grande
Michele attende di partire per il Nord ma arriva a Hora l’affascinante Laura
di Claudio Toscani

  Tutto inizia da Scandenberg, nome italianizzato di Iskander beg, ossia Giorgio Castriota (1403-1468), prima musulmano poi cristiano, eroe nazionale albanese per aver in più tempi respinto serbi, turchi e ungheresi.
Da Scandenbeg si giunge, prima a Dhimitri, poi a Antonio Damis e alla sua famiglia, ed è da lui che prende le mosse l’ultimo intrigante romanzo di Carmine Abate, giovane ma già noto scrittore calabro, nato nella comunità italo-albanese (o “arberëshe”) di Carfizzi, dapprima emigrato in Germania, ora residente a Trento. Questo è il suo sesto libro dal titolo Il mosaico del tempo grande (Mondadori, pp.233, €.16,50).
Nel progressivo prender forma di un intrico di tessere musive, proprio come accade nella bottega dell’artista Gojàri, che è anche prodigioso fabulatore, storie e memorie aggallano nella mente e sulle labbra dei molti personaggi del libro.
Ma il protagonista è Michele, appena laureatosi con una tesi su Hora, mitica città dell’Albania, nel cui ricordo i primi fuggiaschi da quella nazione ne hanno fondato in Calabria una nuova.
Michele attende di partire per il Nord in cerca di lavoro, ma un giorno incontra, alla fermata d’autobus e proveniente dall’Olanda, l’ affascinante Laura Damis, e se ne innamora. Lei nasconde un segreto e Michele lo scoprirà, assieme al lettore, coinvolto nelle mille e una storie degli esuli vecchi e nuovi d’oltremare
E intanto si dipanano, dal gomitolo di anni più o meno remoti, le vicissitudini di Antonio Damis, che lasciata la moglie insegue per l’Europa una ballerina aiutandola a varcare la temibile cortina di ferro. Antonio, sospettato a ragione di essersi impossessato del tesoro della chiesa fondata nell’antica Hora dal capostipite della famiglia, lo restituirà (anche se manca il prezioso pugnale appartenuto a Scandenberg, servito invece per un enigmatico delitto).
Ma i fili – si diceva - sono molti, come i tasselli del mosaico che Gojàri appronta giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, racconto dopo racconto.
E il libro li certifica tutti, nel suo progressivo comporsi attorno al nucleo originario della primaria vicenda degli espatriati dall’Albania in Calabria.
Punteggiato da quella lingua ad aculei sonori che è l’ arbëresh, il romanzo è anche, ma forse dovrei dire soprattutto, nel senso che fa della nostalgia per la terra perduta una credibile utopia per il futuro, il resoconto di una secolare vicenda: la mescolanza, nel tessuto nazionale italiano, di usi e costumi, folclore e fervore, parole e pathos di un “tempo grande”, lontano e tuttavia indelebilmente iscritto nell’identità di un popolo che si è fatto da secoli ospite nostro.
Il che riverbera, per non dire illumina direttamente, il dramma di molte altre genti che bussano alle nostre porte, umanità migrante che chiedendo offre valori e possibilità.
Da un lato si apre il nuovo, dall’altro si conserva una memoria: c’è chi scopre qualcosa di imprevisto e chi copre storie come tesori in fondo al mare.