Gazzetta del Sud, 27.02.2006

Esce in libreria «Il mosaico del tempo grande»
Il mondo favoloso e crudele evocato da Carmine Abate
di Giuseppe Amoroso

  Da Hora, piccolo paese calabro di origine albanese, Antonio Damis stabilisce di partire per far ritorno alla terra degli avi che lo attende come una «calamita». Anonime minacce di morte lo perseguitano. Ma nonostante i tremendi ostacoli, l'uomo è deciso a raggiungere l'amata Drita. Di lui parla già il Gojàri, detto Boccadoro perché «ha mille storie nella bocca» tutte vere e preziose come l'oro». Lo circondano ascoltatori attenti, tra i quali Michele, appena laureato in Lettere e in procinto di emigrare nel Nord dell'Europa in cerca di lavoro. Artista del mosaico, Gojàri incastona, nella sua bottega, le tessere su una grande parete di pannelli, dove esegue un imprescrutabile disegno dilagante di impasti di colori e archi di luce. L'artista affascina tutti con i suoi racconti: ma ora si interrompe, mentre l'intero paesaggio pare prepararsi a un evento eccezionale.
Il tempo cessa di avanzare, si fa grumo di visioni, precipita nei secoli, trascina carovane di uomini in fuga, ombre «palpitanti», che affidano a un'imbarcazione simile a «guscio di noce» la loro fortuna. Alla guida è Dhimitri Damis, il papàs ardimentoso che dà l'impressione di sapere dove andare per quella nuova terra incolta e polverosa che ricorda quella natia da cui ha avuto inizio l'esodo. Qui, i nuovi arrivati costruiscono le loro case, coltivano i campi, dando vita a un paese che si confonde con quello lontano dei padri.
È un insediamento del Quattrocento destinato a divenire leggenda nell'oralità popolare.
Ricco di voci e paesaggi come lunghe rifrangenze di sguardi, sponde prolungate di pensieri, Il mosaico del tempo grande (Mondadori, pp. 238, euro 16,50) scava, con scaltriti mezzi di narrazione, nei luoghi più cari alla vena dell'autore. Il mondo favoloso e crudele, glorioso e piegato dal dolore di un angolo di Calabria continua a premere sulla pagina di Carmine Abate catturando un memorabile patrimonio di immagini e di linguaggi (il dialetto calabrese, l'arbëresh, quale preziosa eleganza letteraria), un nucleo di enigmi e di miti e pure la prospettiva colma di una partecipazione assidua ai colori e alla vita di tutti, resa mediante metafore, allusioni, rimandi da una figura all'altra, da una condizione sociale a uno spazio quasi metafisico. I temi sono subito pronti per la scena che dovrà imprimere un andamento determinato al romanzo: nella piazza brulicante di occhi maschili, una bella ragazza bionda, scesa dal pullman, è «trafitta» da troppi sguardi. Ha con sé un bambino, «un soldatino di piombo sull'attenti». È Laura Damis, figlia di Antonio, e arriva con il fratellino dall'Olanda per abitare la vecchia casa paterna in un vicolo silenzioso e vuoto.
La «scia» delle sue parole e della sua avvenenza investono Michele con la forza di un incantamento. Attenta, china sulle sfumature, la cronaca storico-mitica promuove a uno stato visionario la minuscola storia del giovane e fa scartare dall'opaco binario di abitudini i ritmi della vita sociale di una comunità del Sud. Il vischioso torpore della piazza, il sole che schiaccia i corpi, il vento sulla collina, un volto di donna che, passando accanto, «incalamita come un filfilàto di ferro», stendono una sorta di coltre dietro cui si intravedono le sagome del mondo di sempre muoversi con un altro ritmo, espropriate dalle loro leggi. Esaltato dalla presenza di Laura, Michele sembra perdere il contatto con l'esterno che, a sua volta, si scorpora nell'ipnotico spaesamento dei racconti di Boccadoro. Ed è una magia capace di transitare dalle eroiche gesta di Scanderberg alla soffocante aria dell'Albania di Enver Hoxba sono infinitesimali tracce quelle che fanno fiorire azioni importanti, colpi di scena, catene di episodi.
L'ombra di vento che insegue gli uomini, uno sguardo innamorato, un sapore di liquirizia, un fruscio senza un perché, parole di canzoni bastano a creare azioni vere e sognate, un assedio di fatti inesistenti e personaggi in carne e ossa, dolenti e altri che spariscono con la «sveltezza di una lepre impaurita». In un libro in cui «la parola è una ma si fa cento, cinquecento, mille in un lampobaleno», possono avvenire repentini mutamenti di temi e di toni: v'è spazio così per qualche notturno gotico, con tanto di chiesa diroccata dal traballante pavimento sotto il quale gemono le ossa dei morti. E vi sono pure ragazzi di anni passati che cercano di nascondersi invano al «passaggio» del tempo, e incombe il mistero di un tesoro nascosto. Le pagine appaiono espressivamente marcate dalla tensione a cogliere il nodo materiale della realtà mediante un ribaltamento di forme linguistiche.