Esce in libreria «Il mosaico del tempo grande»
Il mondo favoloso e crudele evocato da Carmine
Abate
di Giuseppe Amoroso
Da Hora, piccolo paese calabro di origine albanese,
Antonio Damis stabilisce di partire per far ritorno alla terra degli avi che lo
attende come una «calamita». Anonime minacce di morte lo perseguitano. Ma
nonostante i tremendi ostacoli, l'uomo è deciso a raggiungere l'amata Drita. Di
lui parla già il Gojàri, detto Boccadoro perché «ha mille storie nella bocca»
tutte vere e preziose come l'oro». Lo circondano ascoltatori attenti, tra i
quali Michele, appena laureato in Lettere e in procinto di emigrare nel Nord
dell'Europa in cerca di lavoro. Artista del mosaico, Gojàri incastona, nella sua
bottega, le tessere su una grande parete di pannelli, dove esegue un
imprescrutabile disegno dilagante di impasti di colori e archi di luce.
L'artista affascina tutti con i suoi racconti: ma ora si interrompe, mentre
l'intero paesaggio pare prepararsi a un evento eccezionale.
Il tempo cessa di avanzare, si fa grumo di visioni, precipita nei secoli,
trascina carovane di uomini in fuga, ombre «palpitanti», che affidano a
un'imbarcazione simile a «guscio di noce» la loro fortuna. Alla guida è Dhimitri
Damis, il papàs ardimentoso che dà l'impressione di sapere dove andare per
quella nuova terra incolta e polverosa che ricorda quella natia da cui ha avuto
inizio l'esodo. Qui, i nuovi arrivati costruiscono le loro case, coltivano i
campi, dando vita a un paese che si confonde con quello lontano dei padri.
È un insediamento del Quattrocento destinato a divenire leggenda nell'oralità
popolare.
Ricco di voci e paesaggi come lunghe rifrangenze di sguardi, sponde prolungate
di pensieri, Il mosaico del tempo grande (Mondadori, pp. 238, euro 16,50) scava,
con scaltriti mezzi di narrazione, nei luoghi più cari alla vena dell'autore. Il
mondo favoloso e crudele, glorioso e piegato dal dolore di un angolo di Calabria
continua a premere sulla pagina di Carmine Abate catturando un memorabile
patrimonio di immagini e di linguaggi (il dialetto calabrese, l'arbëresh, quale
preziosa eleganza letteraria), un nucleo di enigmi e di miti e pure la
prospettiva colma di una partecipazione assidua ai colori e alla vita di tutti,
resa mediante metafore, allusioni, rimandi da una figura all'altra, da una
condizione sociale a uno spazio quasi metafisico. I temi sono subito pronti per
la scena che dovrà imprimere un andamento determinato al romanzo: nella piazza
brulicante di occhi maschili, una bella ragazza bionda, scesa dal pullman, è
«trafitta» da troppi sguardi. Ha con sé un bambino, «un soldatino di piombo
sull'attenti». È Laura Damis, figlia di Antonio, e arriva con il fratellino
dall'Olanda per abitare la vecchia casa paterna in un vicolo silenzioso e vuoto.
La «scia» delle sue parole e della sua avvenenza investono Michele con la forza
di un incantamento. Attenta, china sulle sfumature, la cronaca storico-mitica
promuove a uno stato visionario la minuscola storia del giovane e fa scartare
dall'opaco binario di abitudini i ritmi della vita sociale di una comunità del
Sud. Il vischioso torpore della piazza, il sole che schiaccia i corpi, il vento
sulla collina, un volto di donna che, passando accanto, «incalamita come un
filfilàto di ferro», stendono una sorta di coltre dietro cui si intravedono le
sagome del mondo di sempre muoversi con un altro ritmo, espropriate dalle loro
leggi. Esaltato dalla presenza di Laura, Michele sembra perdere il contatto con
l'esterno che, a sua volta, si scorpora nell'ipnotico spaesamento dei racconti
di Boccadoro. Ed è una magia capace di transitare dalle eroiche gesta di
Scanderberg alla soffocante aria dell'Albania di Enver Hoxba sono infinitesimali
tracce quelle che fanno fiorire azioni importanti, colpi di scena, catene di
episodi.
L'ombra di vento che insegue gli uomini, uno sguardo innamorato, un sapore di
liquirizia, un fruscio senza un perché, parole di canzoni bastano a creare
azioni vere e sognate, un assedio di fatti inesistenti e personaggi in carne e
ossa, dolenti e altri che spariscono con la «sveltezza di una lepre impaurita».
In un libro in cui «la parola è una ma si fa cento, cinquecento, mille in un
lampobaleno», possono avvenire repentini mutamenti di temi e di toni: v'è spazio
così per qualche notturno gotico, con tanto di chiesa diroccata dal traballante
pavimento sotto il quale gemono le ossa dei morti. E vi sono pure ragazzi di
anni passati che cercano di nascondersi invano al «passaggio» del tempo, e
incombe il mistero di un tesoro nascosto. Le pagine appaiono espressivamente
marcate dalla tensione a cogliere il nodo materiale della realtà mediante un
ribaltamento di forme linguistiche.