Fusi Orari, Marzo 2006 “Il mosaico del tempo grande” La storia di una comunità e della sua identità è spesso il risultato figurativo, nella rappresentazione che noi ne abbiamo, di un percorso tortuoso e irregolare di piccole o grandi vicende che si intrecciano. La loro ricostruzione passa attraverso l’angoscia o la felicità dei singoli e si allarga alla grande storia di un popolo che ricerca se stesso: e tutto questo, nella scrittura, si tramuta in un grande affresco che nei suoi particolari cela un racconto multiforme ed eterogeneo. Forse proprio per questo motivo, per chi scrive storie e cerca di offrire al suo lettore ideale l’imprendibile agitarsi delle numerose forme della vita, il mosaico rappresenta una metafora capace di dare l’idea di come mille e più tessere vengano con pazienza messe una affianco all’altra nel tentativo di far emergere una figura, un’idea, una storia appunto. Carmine Abate, con il suo nuovo romanzo, Il mosaico del
tempo grande, ha inteso raffigurarci non solo, in termini più letterari, il
lavorio di assemblaggio dei tasselli narrativi, ma la varietà delle figure
che una storia più generale contiene. In continuità con quelli che erano, si
crede, i propositi delle precedenti opere dello scrittore calabrese (si
pensi almeno a Tra due mari), l’epopea arbëreshe rivive attraverso la storia
di destini che si incrociano, per poi confondersi in un quadro storico
generale. Questa della corrispondenza fra l’esistenza di una piccola
comunità – quella di Hora, il mitico paesino in cui era ambientato pure il
plot del precedente La festa del ritorno – e un movimento storico di vasto
respiro è una delle costanti che si ritrova nelle opere di Abate. In Abate, in un certo qual modo, questo principio viene
rovesciato, e il mosaico diviene l’archetipo di una costruzione che si fa
strada da sé progressivamente, lasciando trasparire a piccoli passi
l’immagine finale. Lo scrittore è dunque l’artista che con la mano
costruisce la storia, ne mostra i tasselli uno per uno: è una figura,
pertanto, forte, autorevole, che sa quel che vuole – una figura che
contraddice, oggi, quella che è l’immagine stessa dello scrittore. Alter ego
dell’autore è Gojàri (letteralmente: Boccadoro – e il rimando ad Hesse non è
casuale), impegnato a riassumere le vicende dei lontani e storici albanesi,
da Scanderberg fino ad Dhimitri Damis, e a costruire un mosaico che ritragga
il “tempo grande”, l’immensità del tutto – egli dice: «le storie le abbiamo
dentro e attorno a noi, io non faccio altro che raccoglierle come frutti da
un albero e poi le fisso nel mosaico perché durino il più a lungo possibile.
Questo hanno di buono i mosaici: che durano più degli affreschi, più dei
quadri e delle parole, più di noi». Eppure tanto simile all’autore è anche
il vero protagonista del Mosaico, Michele, giovane laureato che vive la sua
estate di neodottore ad Hora, prima di andarsene, secondo un triste destino
comune, ad insegnare chissà dove. Si innamorerà di Laura, la bella figlia di
Antonio Damis venuta dall’Olanda, e i destini di una comunità, gli screzi
del passato, i ricatti di mafiosi interessati a gare per appalti pubblici,
il segreto di un ritorno che sarà fatale, si intrecceranno in un unico
grande disegno che svela la sua interezza al lettore improvvisamente,
chiudendo il cerchio in modo perfetto, ma lasciando aperta la problematicità
della sua totalità. Perché se la frammentarietà rischia di creare
confusione, la lingua cerca di sopperire a questa mancanza, cercando di
farsi espediente per l’unitarietà: è una lingua, quella di Abate, che
aderisce pienamente al reale, avvalendosi della sonorità della parlata
arbëreshe e riscoprendo in essa – quasi il suo uso valesse quale ermeneutica
che agisce nell’atto della creazione e della comprensione dell’opera – un
senso originario. |