Hora e sempre
Una forza che viene
dal passato e gira
dalla Calabria al mondo.
di Massimo Onofri
Prima di tutto c’è la calabrese Hora, dove risiede
da sempre una delle non poche comunità italo-albanesi, di lingua arbëreshe,
che popolano in diversa guisa il Meridione d’Italia. Quella comunità che, a
partire dal suo romanzo d’esordio, Il ballo tondo (1991), Carmine
Abate ha reinventato nella sua lingua suggestiva e mescidata, di romanzo in
romanzo diversamente gradata, più o meno lavorata. Qui, nelle parole del
padre dell’io narrante, dentro il presente dei nostri anni: “Fattìlo contare
da quello sperto di Gojàri: con lui sei ‘nkrick e ‘nkock, gli credi pure se
ti dice che in Arbanìa volano i muri”. Poi c’è l’Hora albanese, quella
all’inizio di tutte le storie, della Storia piccola e di quella grande, da
cui muove quasi un popolo intero, per sfuggire la minaccia del feroce
esercito ottomano, alla fine del Quattrocento, sotto la guida saggia e
religiosamente ispirata del papàs Dhimitri Damis: sua moglie porta nel
grembo il primogenito, ma molto sangue, sulla strada di una fuga e di un
impossibile ritorno, dovrà ancora essere versato, compreso quello del suo
figlioletto, Jani Tista, tanti anni dopo.
Ma c’è anche un altro Damis, Antonio, l’unico depositario d’una tradizione
antichissima che ancora risplende sotto la stella del padre dei padri,
l’eroe Scanderbeg, ma del tutto rimossa, quella tradizione, se non
dimenticata: vive febbrile e controvento, Antonio, al centro d’un turbine di
risentimenti oscuri che potrebbero costargli anche la vita, e vorrebbe
tornare nell’Albania degli avi, sulle sponde di quel lago dove crede si
trovi la città dell’origine, per ritrovarla e ritrovarsi. Quindi c’è Laura,
la figlia di Antonio, “la bionda figa, la ragazza con il bambino, la
straniera”, che irrompe all’improvviso nel paese che il padre ha lasciato,
sigillata nel suo mistero. Infine, ma accanto a una folla di altri
comprimari, c’è Gojàri (“Boccadoro”), incantevole e incantato affabulatore,
ma soprattutto l’artista che attende a uno stupefacente mosaico – ecco la
ragione del titolo –, cui Abate affida forse, ma in forma di brillante
metafora e senza complicazioni intellettualistiche, una riflessione
sull’arte (la letteratura) e le sue condizioni di possibilità.
Dovrei parlare di molto altro ancora: magari dell’Albania dove trionfa e
tiranneggia Enver Hoxha fino ai giorni dell’agonia del regime comunista,
quando le statue di Stalin saltano per aria. E dovrei aggiungere che, forse,
tutti i romanzi sono storie d’amore: se anche questo di Abate, appunto, non
fa eccezione. Preferisco chiedermi che scrittore sia Abate e perché lo
ritenga necessario nel nostro panorama letterario. Per rispondermi che,
senza nessun rapporto con gli scrittori orizzontali, impegnati a
confrontarsi con la realtà della cosiddetta alienazione neocapitalistica e
globalizzata, Abate nasce e resta un narratore in cui tutto rameggia da una
radice atavica. La sua è una forza che viene dal passato: nella
consapevolezza che non si possa dare un romanzo del mondo, per il mondo,
senza una parola accasata in un tempo e in spazio irriducibili. Hora ormai
esiste nella nostra immaginazione. Come Natàca di Brancati, Regalpetra di
Sciascia o Macondo di Màrquez. Certo, ho citato pesi massimi: ma Abate è
giovane, e non è pochissimo ciò che ci ha dato.