Il Crotonese, 31.01.2006
 

Mosaico d'identità
In una sola anima tanti piccoli pezzi
di Simone Arminio e Dario Corale

Carmine Abate, in tutti i suoi libri, sotto il nome fantasioso di Hora c’è il suo paese, Carfizzi. Lei però abita lontano, a Trento. Quindi, delle due una: questi libri vengono concepiti fuori, o per scriverli c’è bisogno di ritornare? Oppure, invece, non sarà forse vero il fatto che essere lontani aiuta a vedere meglio la realtà che si descrive?
Credo che proprio con la distanza io riesca a vedere, e quasi a toccare con mano le cose che descrivo. La distanza per me è come una lente d’ingrandimento. Tant’è che io a Carfizzi non riesco mai a scrivere: ho bisogno di un luogo “altro”, quasi un luogo neutro. Però poi come uomo ho bisogno del paese - e della Calabria - perché mi serve a ricomporre tutti questi pezzi di me che reputo importanti: io non voglio rinunciare alle mie radici più profonde, ma non voglio nemmeno rinunciare alle radici trentine, o a quelle tedesche…questa molteplicità di radici però la vivo come una ricchezza.
Quindi quella dell’emigrante raccontata molte volte nei suoi libri può essere considerata come un’esperienza personale, sebbene vissuta in un modo diverso dal solito?
È una storia personale, ma trasformata in un’esperienza positiva, e mi piacerebbe che questo esempio venisse seguito soprattutto dagli emigrati di oggi: è inutile lamentarsi. Siamo stati costretti a scappare, ad abbandonare la Calabria, ma lo abbiamo voluto. E una volta che parti è poi impossibile un ritorno alle stesse condizioni, perché tu sei diverso, e il paese si trasforma.
Certo, se si torna, si torna diversi…
E però qual è l’alternativa? Dimenticare il proprio mondo d’origine, come fa qualcuno? Secondo me farlo significa impoverirsi. Io alla fine, dopo un percorso lungo e dolorosissimo mi sono reso conto che in questa mia nuova condizione avevo più radici e avevo acquisito più sguardi: non solo lo sguardo del paese ma anche, ad esempio, lo sguardo del Nord, che è fondamentale per saper leggere il paese, per vedere certe cose, positive o negative, che gli altri non vedono.
La parola chiave di questo mio ultimo libro è infatti il mosaico, ed il mosaico è un’insieme di tessere che formano un quadro bellissimo. Tutte queste tessere non sono altro che i diversi pezzi d’identità che noi abbiamo, ed io non faccio altro nei miei libri che tentare di ricomporre tutti questi pezzi d’identità, senza rinunciare nemmeno ad uno.
Così alla fine ho una sola anima, ma composta da tanti piccoli pezzi d’identità che sono anche le lingue che parlo, e che sono fondamentali quando scrivo, perché le parole arberësh o calabresi si impigliano nella pagina, ed evocano storie dalla mia memoria come fossero una vera e propria esca, sono parole assolutamente fondamentali, perché dietro ogni parola c’è una storia, ci sono dei valori.
Anche il concetto di “Tempo Grande”, ad esempio, è una traduzione dall’arbëresh: in italiano non lo useremmo mai, ed invece in arbëresh questo concetto esiste. Io lo traduco e lo faccio mio in italiano, addirittura come titolo di un libro…

E proprio riguardo alla lingua, a questo gioco di scatole cinesi fra le varie lingue che lei costruisce nella pagina: questa scelta, quando è stata fatta in principio, non rappresentava per lei un po’ una sfida? Non ha avuto paura che non venisse capita o apprezzata?
È stata una sfida, ma anche un’evoluzione. Per esempio, ne “Il ballo tondo” questa commistione era molto meno presente: c’era solo l’arbëresh e l’italiano. Poi, piano piano, ho riscoperto anche la mia parte calabrese, perché non sono un fanatico delle minoranze, non mi interessano. Noi viviamo da cinque secoli in Calabria, siamo arbëresh ma siamo anche calabresi.
Nel romanzo, ad un certo punto compare una donna calabrese, la bella rossanisa che si sposa con un Papàs. In quel punto comincio a parlare dei matrimoni misti tra calabresi e arbëresh, che hanno cambiato la nostra storia, ci hanno fatto diventare altro, e non più albanesi puri. Alla fine del ‘500, questa bellissima ragazza calabrese si sposa un papàs albanese.
E noi discendenti, Antonio Damis [un personaggio del nuovo libro, ndr], siamo tutti frutto della contaminazione, che è una contaminazione linguistica, culturale, e una contaminazione d’amore. La contaminazione è la caratteristica dei miei libri e di questo libro in particolare. Ma una contaminazione vissuta come ricchezza, e non come perdita dell’identità originaria.