Corriere del giorno, 12.03.2006
Nostalgie e ritorni lungo il mediterraneo
Passioni, fughe e profughi
di Silvano Trevisani
Il cerchio dei ritorni. E’ l’ossessione narrativa e la
poetica figurale di Carmine Abate, lo scrittore da anni residente nel Trentino
“oriundo” calabrese, ma di una Calabria particolare, quella degli arberesh, le
comunità albanofone insediatesi in quella regione, come nella nostra, cinque
secoli fa. Nel Trentino insegna e scrive, con successo. Il suo ultimo romanzo,
“Il mosaico del tempo grande”, edito da Mondadori sta riscotendo notevole
interesse. Noi vi riscontriamo un ritorno all’ispirazione del suo primo,
fortunato lavoro, quel “Ballo tondo” che, edito per la prima volta nel 1991, e
riedito successivamente prima da Fazi poi da Mondadori, lo ha consacrato
scrittore.
La sua Carfizzi, con la sua Calabria “interiore” è presente, in realtà, in tutti
i suoi romanzi successivi: “La moto di Scanderbeg” del 1999, “Tra due mari” del
2002 e “La festa del ritorno”, del 2004, ma qui, come nel “Ballo tondo”, la
lingua, diremmo più propriamente la “mistilingua”, poiché italiano e arberesh si
fondono ossessivamente, lasciando qualche spazio anche all’olandese, ridiventa
un disegno spirituale, un’espressione intima, quasi una “scrittura automatica”
(per non dire esoterica), inaccessibile com’è, nelle parole albanesi, alla quasi
totalità dei lettori, eppure universalmente comunicativa.
Più cerchi si chiudono, in questo romanzo che racconta e inanella, su piani
diversi, storie di immigrati di “allora” e di oggi. Passioni antiche dei padri,
che difesero il paese assieme all’eroe Scanderbeg e subirono la parziale
cancellazione dalla storia da parte dell’impero ottomano, e passioni di oggi, di
persone che, eredi di un’antica colonizzazione, non smettono mai di sentirsi
stranieri, di riprendere il cerchio interminabile delle ripartenze.
Una storia di amore si intreccia con la storia d’amore dei padri, anche questa
intessuta di fughe e ritrovamenti, con segni misteriosi e antiche faide, che
accendono, nella vicenda, luce sempre nuove, sempre eterne.
Ed è certo che anche la storia della partenza dell’autore, partito per la
Germania molti anni fa, dove pure riuscì ad affermarsi come scrittore, e poi
sposatosi e impiantatosi “altrove”, pesa su questa dinamiche di partenze. Su
quell’eterno nostos che ci ha insegnato, qualche millennio fa, un uomo
mediterraneo di nome Omero, raccontandoci il paradigma immortale e universale di
Ulisse, l’uomo dei ritorni e delle ripartente.
“Jani Tista Damis era sincero – si legge a pagina 81, e il racconto ci porta per
flashback al 1499, quando una colonia di fuggiaschi albanesi approda sulle
nostre rive – Solo che non conosceva la perfidia della partenza, il suo sguardo
ammaliante e tagliente che, quando meno te lo aspetti, recide tutti i ponti alle
tue spalle e cancella le orme dei tuoi passi come una bufera di neve. Il papas
Dhimitri Damis, invece, tutto questo lo sapeva, lo aveva vissuto sulla propria
pelle e, a differenza di Liveta (combattente albanese, ndr.), ne serbava memoria
per evitare errori strazianti al presente”.
Partenze e ritorni, quindi. Tutto si ricompone nel “mosaico del tempo grande”,
che è lo spazio di tempo per ritorni ciclici che simbolicamente un immigrato
albanese dell’ondata dei primi anni ’90, compone artisticamente, come a lasciare
un segno tangibile.
Insomma, la storia si ripete, uguale e diversa, provocandoci, commovendoci,
(inutilmente a volte) interrogandoci.
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