Corriere del giorno, 04.03.2006
La cultura e la storia arberesh
nei romanzi di Carmine Abate
di Pierfranco Bruni
La lingua, “la nostra lingua”, è non un modello di
identità. E’ soprattutto identità. Il tempo e la letteratura. Un rapporto
emblematico nei romanzi di Carmine Abate. Un rapporto in cui il concetto di
“etno” è dentro l’esistenza, forse anche oltre la storia stessa. La letteratura
è fatta di eredità, di esplorazioni inconsce che richiamano modelli
“antropologici”.
Il senso dell’Etno, soprattutto oggi, ha un senso proprio nel recupero di quelle
radici che non sono solo linguistiche e storiche ma esistenziali, estetiche,
meta - archetipali. Uno scrittore che ha matrici appartenenti ad una cultura di
minoranza etnico – linguistica vive una di quelle “conflittualità” positive che
lo portano costantemente a confrontarsi con culture che si integrano. Non si
separano. Si incontrano. Non si lacerano. Si comprendono. Non si feriscono.
I romanzi di Carmine Abate, scrittore Arbereshe (Italo – Albanese), hanno una
forza interna che diventa non solo dettato esistenziale ma codice di conoscenza
verso una lingua altra che significa cultura altra. Sempre, comunque,
all’interno di un processo che è profondamente italiano. Il tempo della memoria
non è un tempo corto in Abate. E’ il tempo di una civiltà e di una diaspora ben
incatenato nel senso e nel sentimento della scrittura. Il suo ultimo romanzo,
d’altronde, lo testimonia ampiamente: Il mosaico del tempo grande (Mondadori).
Essere Arbereshe.
I fatti, gli avvenimenti, le avventure, i destini sono nel mosaico del tempo e
offrono ricordi ed immagini. Così: “Non importa quando succedono i fatti, il
tempo è grande se ti lascia una traccia dentro. Per esempio una fuga senza meta,
l’imbra di vento che ti insegue ovunque, oppure uno sguardo innamorato e il
sapore della liquirizia, la felicità che appena la sfiori si allontana di un
passo come un orizzonte dispettoso. Ecco: queste tracce, dobbiamo cercarle e
seguire. Queste braci vive, in cerchio, sotto una montagna di cenere”. Una
proiezione oltre l’immagine perché vive nella memoria. In quella memoria che
intreccia tempo, storia e nostalgie delle civiltà.
Vivere l’arbereshità non solo nel tempo della memoria ma nel quotidiano che si
fa linguaggio, quotidiano e storia. La storia che diventa esplorazione dell’etno.
Albanesi e Arbereshe. Albania e Arberia in un racconto nel quale i paesaggi
della Calabria sono storia e sogno. Una dimensione in cui l’etno ha una sua
particolare importanza sia dal punto di vista del linguaggio (l’archeologia dei
saperi e dei linguaggi) sia dal punto di vista di una lettura prettamente
mitica.
C'è una tradizione che racconta recuperando tracce di passato. C'è una
tradizione che si fa memoria soltanto nel pensare a un tempo che non c'è più.
C'è una tradizione che vive il presente traslocando il quotidiano in un gioco di
specchi che lo si vorrebbe far attraversare da piccole e grandi nostalgie. C'è
una tradizione che si racchiude in forme di folclore e forme antropologiche che
recitano modelli culturali. C'è una tradizione che ricicla immagini e simboli e
cerca di proiettarli oltre.
Soprattutto in quelle comunità dove sono forti i segni di una etnia (ovvero di
una minoranza etnico - linguistica che richiama ereditarsmi culturali e fattori
sistemologici storici ben decisi) la tradizione costituisce non soltanto un dato
letterario ma in modo particolare esistenziale. Ma è proprio in questi contesti
di analisi che la letteratura rappresenta la fissazione di un modello di
tradizione che registra il tempo come una memoria lunga che interessa quello che
è stato in una civiltà, in un popolo, in un processo culturale e quello che è
nell'immagine del contemporaneo.
La tradizione esiste come tempo della memoria (e quindi persiste nonostante la
presenza assillante della modernità in quel “tempo grande” che percorre il suo
viaggio esistenziale e letterario) se non si lascia trascurare
dall'impressionante e stravagante codice della modernità. E' appunto la
letteratura che incamera queste assonanze.
Assonanze. Anche il vento è una metafora nelle assonanze. “Il vento, dunque. Qui
sulla collina di Hora s’incrociano i venti che soffiano dalla Sila e dal mare
nostro, dal Nord e dal Sud. Un vortice fresco o caldo, a seconda delle stagioni,
che comunque ti sconvolge i capelli, ti strappa i pensieri dalla testa”.
La letteratura arbereshe è una letteratura ricca di assonanze e di coordinate
simboliche che devono essere vissute come tali e non come revanscismo storico o
ideologico. La letteratura può essere creazione nella storia. Mistero
nell’indissolubile progetto della vita. Come il caso del romanzo del 2002: Tra
due mari e il successivo del 2004: La festa del ritorno. Il senso del ritorno è
la metafore di un orizzonte in cui il viaggio si fa viaggiare e il viaggiatore
un viandante.
Proprio per questo la caratterizzazione di una letteratura simbolica (arbereshe)
che si intreccia e si incrocia con i parametri della diaspora costituisce un
ritornare ai luoghi di una essenza che non è solo geografica ma antropo-
metafisica e il più delle volte resta nell'ascolto di una identità che riporta
nella metafora della parola tracciati ancestrali.
Le letterature che esprimono modelli culturali nei quali l'identità etnica e
linguistica è il punto di smisto di un progetto di vita è naturale che il
rapporto con la storia non può che trasformarsi in un raccordo con un sentimento
di appartenenza che è appartenenza ad una terra che significa
ancora appartenenza a un senso delle origini non solo dell'uomo ma di un popolo
e quindi di una civiltà dentro una identità ben costituita.
Lo scrittore che ha origini in questa identità non può fare a meno di alcune
componenti che sono linguistiche certamente (la lingua non è soltanto
comunicazione, è sostanzialmente la madre e la terra) ma sono complessivamente
di natura esistenziale. Per esempio Carmine Abate, uno scrittore che proviene da
una etnia arbereshe calabrese, pur non vivendo più tra le pareti fisiche e
geografiche del suo paese arbereshe i suoi romanzi sono un parametro che lega la
creatività (il fantastico) con la tradizione ad una fedeltà ad una cultura.
Ma più si crea un distacco - separazione con il paese delle origini (il luogo
dell'appartenenza: luogo della nascita - infanzia, luogo del sentimento del
primordiale) più si intensifica il bisogno del ritorno, più si intensifica la
necessità di parlare, di raccontare, di penetrare le dimensioni di quel luogo
che è stato lasciato perché in fondo lasciare, soprattutto in questo caso, è un
po' come tradire. Perché soprattutto in questo caso?
Perché qui si consumano due abbandoni. Il primo è quello delle origini (il paese
che rappresenta la centralità dell'essere e della conoscenza di se stessi viene
ad essere abbandonato e quindi subentra quel sentimento dello spaesamento -
sradicamento che è in fondo una componente della nostalgia). Il secondo è
l'abbandono di una "diversità" rispetto alla cultura ufficiale. Diversità che è
radicamento ad un popolo, ad una memoria storica che riporta spaccati di
civiltà. La diaspora dell'arbereshe è dunque duplice.
C'è come si diceva lo spaesamento che è distacco - lontananza ma c'è anche un
senso di sconfitta di una comunanza ad una etnia. L'uscita fuori dal paese per
un non arbereshe è meno drammatica perché punta a costituire un paese in un
altro luogo pur restando fedele al punto di partenza. L'arbereshe deve ritrovare
un paese ma deve poter trovare anche un sentimento di comunanza che resta
comunque legato a un mondo e a un pensare arbereshe. La letteratura è la chiave
di lettura che mette in campo tutti questi spaccati recuperandoli ad una griglia
culturale che si può leggere come parametro sì antropologico, come si diceva, ma
di riferimento mito - simbolico tra i circuiti della storia - tempo.
Una delle componenti importanti del sistema antropologico e culturale è il paese
ma il paese si caratterizza per la gjitonia. Ovvero con il vicinato. La
comunanza. Ovvero l'appartenenza. Carmine Abate nei suoi romanzi che sono
espressioni letterarie interessanti gioca proprio nella comprensione -
consapevolezza della gjitonia. Potrebbe essere la trasposizione dell'agorà
ellenica intesa come luogo del conoscersi, del parlare, del capirsi. Il gioco
della memoria ruota intorno alle gesta di Scanderbeg. L'orgoglio, il viaggio, la
sconfitta, l'eroico, la diaspora, il richiamo alle eredità.
L'Arberia che non dimentica la vera patria che è l'Albania invasa dai Turchi.
"Noi abbiamo lo stesso giak, lo stesso sangue, di quelle genti" scrive Carmine
Abate in Il ballo tondo (Fazi Editore). Il sentire gli echi di Scanderbeg è il
sentirsi arbereshe. Carmine Abate: "un paese arbereshe senza il busto di
Scanderbeg non è un paese arbereshe".
Il ballo tondo è uno di quei romanzi che incasella la "favola" del paese come
metafora del luogo della riconciliazione, del distacco e del ritorno con un
mosaico i cui tasselli portano sulla scena voci e destini, parola e assonanze
arbereshe. Non è soltanto una questione di rilettura di un costume etnico. E'
"quel" vissuto arbereshe che ha una sua connotazione ben precisa.
Così come nell'altro romanzo dal titolo La moto di Scanderbeg (Fazi Editore).
Qui c'è un sentimento del radicamento che è mutuato da un appartenere ad una
esistenza di civiltà. C'è sempre il paese con il suo vicinato. La diaspora o
l'emigrazione. Il cammino tra le onde di una civiltà. Un conflitto tra il
partire dal paese o il restare: "Se ti dicono di restare, parti. Se ti dicono di
partire, resta". Alla fine c'è il linguaggio del cuore che attraversa i
personaggi e i paesaggi.
Il punto è qui: "Noi non siamo albanesi, siamo arbereshe". Il senso del
sentimento di appartenenza lo si vive proprio in questa dimensione che ha una
valenza storica. Dunque la tradizione non è nel sentirsi albanesi. La loro
appartenenza è un raccordo tra le culture del Mediterraneo e il loro vivere la
condizione di essere e sentirsi arbereshe.
La moto di Scanderbeg è un ritrovarsi dello scrittore. Una bella metafora che ha
orizzonti di nostalgia: " E' dalla gente che mi sento divorziato, è la gente che
vorrei riavvicinare, mi sono detto, ma non era vero, non lo era del tutto:
volevo riavvicinarmi anche a me stesso. Per questo ho parlato, per questo sto
scrivendo".
Nella metafora del paese (nella metafora del sentirsi arbereshe) c'è, comunque,
il tempo di Scanderbeg che vive dentro il quotidiano di una tradizione che è
fatta di linguaggio e di strumenti simbolici che si vestono di dimensioni
oniriche. Il senso dell'onirico è anche in Il ballo tondo.
Ebbene, la letteratura, come si diceva, mette in moto strutture culturali
chiaramente visibili ma pone all'attenzione dei codici che si proiettano in un
immaginario collettivo in cui il mito, comunque, resiste alla storia e la favola
come modello culturale è più forte della realtà stessa. Una realtà che si
infiltra certamente nel presente ma che resta come “mosaico” nel viaggio di un
tempo che ha sempre, se pur metaforicamente, bisogno della “festa del ritorno”.
Il ritorno tra i viaggio (che è fatta di partenze, di lontane e di nostalgie) e
il viandante (pellegrino nell’isola dell’anima che è la sua anima) in un
incontro sempre di tempo e di storie, di quelle storia che si hanno dentro come
sottolinea proprio in Il mosaico del tempo grande, il cui titolo è un intreccio
di metafore e di segni nel labirinto dell’esistenza. In una storia fatta
principalmente di tempo. Ma la storia potrebbe resistere senza le metafore del
tempo? I popoli e le generazioni si incontrano. Anzi si sono incontrati su quel
grande palcoscenico che non smette di recitare il viaggio di Scanderbeg.
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