Avvenire, 11.02.2006

Carmine Abate continua a scandagliare nella sua identità.
Ma il suo sguardo va oltre, nelle vicende di un’intera comunità
Storia di un italiano che sogna l'Albania
di Giuseppe Bonura

  Con Il mosaico del tempo grande Carmine Abate continua a scavare nella sua identità. L'Italia è da sempre un paese multietnico e andare contro la storia non solo è inutile ma dannoso. Le invasioni barbariche prima e le guerre dinastiche dopo hanno fatto affluire nella nostra penisola miriadi di genti e di culture. Si sono mescolate con gli indigeni in un intreccio variopinto e creativo. Greci, arabi, africani del Nord, balcanici, ispani, inglesi, etc. hanno percorso l'Italia in lungo e in largo lasciando tracce visibili del loro genio originario. Chi siano gli autentici italiani, Dio solo lo sa. Per esempio in Calabria c'è un paese albanese. Sì, albanese. Ma questi albanesi non sono di recente immigrazione, bensì risalgono a secoli addietro quando a causa di eventi tragici si sparpagliarono per il mondo fuggendo dalla nazione albanese. Ma i cromosomi conservano l'impronta della loro terra.
Ci è difficile, noi che siamo nati in una regione adriatica centrale, capire a fondo la psicologia dei calabresi albanesi. Carmine Abate si è dato appunto, come tema precipuo del suo narrare, il compito di spiegare ai profani il mistero di una cultura incredibilmente minoritaria che si fonda con la cultura locale. "Spiegare" non è il verbo giusto, poiché Abate racconta soltanto, ma dal suo racconto emerge la peculiarità di un mondo assolutamente originale. Anche negli altri suoi romanzi è sempre presente l'Albania della Calabria, nel senso che i suoi abitanti hanno nella fantasia quotidiana il "mosaico" delle vicende dei loro avi. Tra questi spicca l'eroe Scanderbeg, il cui museo in Albania ci capitò di visitare in un memorabile incontro con gli scrittori albanesi. (E tra parentesi, vedemmo gli orribili edifici che il fascismo, nel delirio della sua occupazione, costruì a Tirana, nel vano tentativo di umiliare il popolo).
Dicevamo che Abate, con questo suo nuovo romanzo, continua a scandagliare nella sua identità. In effetti, il suo sguardo va ben oltre, cioè nelle pieghe di una intera comunità.
La narrazione prende l'avvio da Antonio Damis che, tutto azzimato, sale su un camion diretto a Crotone. Va a vedere una partita di calcio di serie B? No, ha intenzione di farsi fare una bella foto per il passaporto. Nel suo intimo spera di partire per l'Albania. (Ecco un bel paradosso: un italiano che sogna di emigrare oltre l'Adriatico). Ma il camion subisce un subdolo attentato: i freni non tengono e gli occupanti finiscono tra gli sterpi in mezzo a un mare di uova (che bevono con gusto, dato lo scampato pericolo). Il fatto è che qualcuno ha giurato di fare la pelle a Damis.
Ma questo è un falso inizio. In realtà il romanzo si dispone a mosaico. Cioè in tanti racconti che alla fine assumono la forma, anzi l'allegoria della nostalgia, o meglio di qualcosa che manca. Il romanzo è anche una bella storia d'amore tra un discendente di Damis e Laura. E in mezzo c'è il ricordo del passato, i gommoni del presente, e le avventure di una comunità che continua a sognare l'età dell'oro.