Spazialità e nostos in La festa del ritorno di Carmine Abate

  di Alfredo Luzi
Università di Macerata


L’impronta della differenza, che percorre tutta la scrittura narrativa di Carmine Abate, trae origine da una condizione autobiografica in cui si intrecciano la storia sociale e antropologica della terra di origine, le vicende esistenziali e il conseguente utilizzo di registri linguistici multipli.

Carfizzi, il paese dove lo scrittore è nato nel 1954, è infatti uno dei luoghi di aggregazione degli albanesi che si rifugiarono nelle terre in possesso della figlia dell’eroe nazionale Scanderbeg dopo il 1468 per sfuggire alla dominazione turca. Fedeli alle tradizioni, alla lingua, alla religione,  le comunità arbëreshët  (italo-albanesi) hanno difeso, nel tempo, pur nell’inevitabile contatto con la civiltà italiana meridionale, i fondamenti della loro identità, soprattutto garantita dalla sopravvivenza della lingua parlata ancor oggi correntemente (l’arbëresh) e dal permanere delle abitudini familiari e gastronomiche.

Ma sul piano antropologico, far parte di una enclave etnica, equivale a sentirsi cittadino di una duplice patria, quella del microcosmo del paese e quella della nazione. La diversità vissuta quotidianamente nel contatto tra due culture interiorizza la percezione della frontiera, individuata nella continua dinamica psicologica tra io/altro, dentro/fuori, ragione/fantasia, linguaggio/lingua, mondo/coscienza, monologo/dialogo, passato/futuro. Dall’immersione in questo groviglio percettivo deriva in Abate, più che un senso di inappartenenza, una tensione verso una  soggettività pronta ad accogliere lo scambio, l’incontro, spazio in cui il molteplice è elemento genetico di identità sempre mutevole. L’archetipo del viaggio che marca collettivamente la storia delle origini del mondo arbëresh, il cui passato porta lo stigma della migrazione, si riattualizza nell’esperienza soggettiva dello scrittore che vive il dramma di una famiglia i cui componenti sono costretti dalla mancanza di lavoro e dalla povertà del sud d’Italia ad emigrare. Il padre di Abate partirà per la Francia e poi per la Germania dove verrà raggiunto dalla moglie e dove lo scrittore vivrà per una decina d’anni, prima di rientrare in Italia e scegliere di risiedere in Trentino, zona comunque di confine, con caratteristiche economiche e sociali tuttavia molto diverse.

Nel volume I Germanesi , pubblicato in Italia nel 1986, e riedito nel 2006 dall’editore Rubettino, Abate, in collaborazione con la sociologa Meike Behrmann, divenuta nel frattempo sua moglie, aveva puntato il suo sguardo sul dramma sociale, linguistico e psicologico di una comunità di calabresi emigrati in Germania, in cui la crisi identitaria è percettibile anche nella lenta, inesorabile deprivazione verbale che si instaura in chi  è sempre sul confine tra lingua madre, lingua nazionale, lingua della comunicazione socializzata, uno degli effetti più deleteri  a livello psicologico della forzata emigrazione.

Ma l’analisi esterna della realtà, che presuppone una distanza tra soggetto ed oggetto, ad un certo punto si interiorizza, quasi che lo sguardo finora proiettivo dell’io narrante divenisse introiettivo, costringendo il soggetto a far parte della vicenda narrata. Dal saggio antropologico al romanzo.

La dimensione autobiografica, pur metaforizzata tramite la forza dell’immaginario e sublimata dalla scrittura letteraria, resta dunque il patrimonio ispirativo di numerosi romanzi  e costituisce una sorta di nucleo macrotematico invariante che unisce i diversi momenti narrativi.

Già in Il ballo tondo ( 1991) il punto di vista del bambino Costantino mette a fuoco personaggi e vicende di una famiglia disgregata dalla emigrazione, collocata in uno spazio-tempo che oscilla tra Germania e Calabria, tra proiezione verso un futuro radioso e la conoscenza di un passato in cui recuperare il valore delle narrazioni orali, dei miti, dei riti folklorici delle comunità arbëreshët.

Temi presenti anche nel romanzo La moto di Scanderbeg (1999)  dove l’archetipo dell’eterno ritorno, o meglio della circolarità della storia che si ripete, dell’indissolubile legame, d’impronta bergsoniana,  tra passato presente e futuro, è concentrato nella iterazione onomastica ( tutti i personaggi maschili si chiamano Giovanni), quasi che nel riconoscimento identitario del nome proprio possano nascondersi le tracce di una epopea collettiva ed individuale trasmissibile per via ereditaria, tassello di un DNA storico ed antropologico in cui è segnato il destino dei protagonisti.

Più proiettato verso la contemporaneità è invece Tra due mari ( 2002), in cui l’erranza, intesa come ricerca inquieta di un ubi consistam ma anche come desiderio insopprimibile di conoscenza nello spazio e nel tempo, si configura nella stessa narrazione e nella tecnica di una globale mise en abîme.Questa è rappresentata dal dono che il personaggio di Giorgio Bellusci fa al giovane Florian come pegno di custodia dei luoghi e dei tempi della memoria, e dunque ancora una volta della continuità della storia, del diario di viaggio di Alexandre Dumas in Calabria nel 1835, dimenticato nel Fondaco del Fico, una stazione di posta, una tappa dell’incessante peregrinare,  che il protagonista vorrebbe ricostruire per ribadire non solo la continuità delle memorie ma anche la vicinanza tra i due mari, lo Jonio e il Tirreno. La presenza dello scrittore francese in Calabria è stata fra l’altro documentata dall’antropologo Vito Teti in un suo saggio letto occasionalmente da Abate.

Nel recente (2006) Il mosaico del tempo grande, con un titolo in cui la dimensione dello spazio è  messa a fuoco dall’immagine del mosaico, le cui tessere, come i racconti, vengono disposte nella composizione artistica a cui lavora il personaggio Gojàri, e quella del tempo rinvia all’epica, in parte leggendaria, che avvolge la figura del condottiero Scanderbeg, si ritrovano tutte le linee portanti della narrativa di Abate: il confronto generazionale tra giovani e vecchi, gli uni assetati di futuro, gli altri portatori di passato e dunque di conoscenza, la spazialità ambientale della Calabria “arbëreshe”, il passaggio dall’adolescenza alla maturità, gli odori e i sapori di una civiltà millenaria, la presenza dell’enigma come ingrediente narrativo acceleratore di lettura, l’emigrazione, l’ibrido linguistico, leggermente attutito rispetto, ad esempio, allo stile di La festa del ritorno, pubblicato da Mondadori nel 2004.

Sul piano linguistico la creolizzazione culturale si concretizza in una scrittura in cui, come hanno già segnalato alcuni dei critici più attenti, i registri linguistici si intrecciano mantenendo una loro funzionalità

 

«Fino a sei anni sapevo parlare solo l’arbëresh. A scuola, come quasi tutti gli arbëreshë, ho poi subìto una scolarizzazione esclusivamente in lingua e cultura italiana, cioè straniera, mentre a casa e con gli amici, nel vicinato, per le strade del paese, continuavo a parlare quella che noi chiamiamo “la lingua del cuore”. L'altra, la lingua che parlavano i maestri, prima, i professori poi, e infine i datori di lavoro, era “la lingua del pane”: importante, certo, ma non radicata dentro come la lingua arbëresh. Tant’è che la scelta, all'inizio forzata e poi sempre più consapevole, di scrivere in italiano l'ho vissuta come una sorta di tradimento nei confronti dell’arbëresh» .[1]

 

Ne La festa del ritorno ( Mondadori, Milano, 2004 ) Abate racconta, ambientandola in un paese della comunità albanese della Calabria che egli chiama Hora e che occulta fin dalle prime pagine con l’indicazione della “scalinata della chiesa di Santa Veneranda” e del “bar Viola” un diretto riferimento a Carfizzi, dove appunto si parla l’arbëresh, una storia di emigrazione di un padre costretto a vivere e a lavorare in un paese straniero, lontano dalla famiglia, ma che, seppur per brevi periodi, ritorna sempre a casa in occasione delle feste di Natale per partecipare alla accensione del grande fuoco di Natale sul sagrato della chiesa. Quel fuoco risveglia in lui i ricordi e il desiderio di raccontare, di far conoscere la sua biografia a suo figlio e agli altri compaesani.  Il  nucleo tematico della narrazione verte, come spesso avviene nei romanzi di Abate, sulla questione sociale dell’emigrazione, percepita come una serie ininterrotta di lacerazioni del rapporto affettivo, che si instaura nei rapporti interpersonali e familiari dei protagonisti, inferte da una sorta di condanna esistenziale al distacco dalla propria terra, che si riverbera sul destino del figlio costretto anche lui a partire per vincere la miseria e l’emarginazione.

Il dolore della partenza è l’elemento genetico della scrittura e della narrazione e attiva la cognizione cronologica nel bambino che chiede conto al padre delle sue periodiche assenze:

 

«Ma perché devi ripartire sempre, eh, pa’? Pse?».

[…]

Lui mi prese la faccia tra le mani e mi guardò dritto negli occhi. Disse con voce profonda, quasi commossa: « Immagina che un uomo senza scrupoli, un bagasciaro nato, ti punta la pistola alla tempia e ti dice: “O parti o premo il grilletto!” Tu che fai? ».

[…]

«Parti» si rispose da solo. «Parti, naturalmente, come sono partito io e tanti giovani del paese, ché non avevamo scampo. Il lavoro di contadino, con quel poco di terra che abbiamo, ci bastava appena per non morire di fame. Avevamo case piccole come zimbe, vecchie e senza comodità. E non ci voleva molta spertizza a immaginare che voi figli avreste fatto la nostra stessa vita caprina. Mentre il mondo progrediva. Progrediva pure da noi».

[…]

Mia madre ci faceva la testa acqua con questa storia della vita di sacrifici che mio padre sopportava in Francia per tutti noi, per il nostro futuro. Solo che non potevo accettarla, questa storia. La trovavo ingiusta e crudele. Il futuro, per un bambino, è una parola vuota. Io volevo stare accanto a mio padre ogni giorno della vita presente. Sempre.[2]

 

 

 L’autore affronta, attraverso il racconto che un padre fa al figlio della sua vita di emigrante, fatta di continue partenze e ritorni, il dramma della dislocazione, dell’impossibilità di percepire la spazialità come luogo fisso in cui, come dice Glissant, “un pensiero del mondo incontra un altro pensiero del mondo”.[3]

Il luogo però è necessario perché la relazione si instauri a livello di immaginario tra il luogo e la totalità mondo. E nella vita dell’emigrante il luogo non è un territorio ma uno spazio in movimento, quello che sul piano psicologico determina la “identità-rizoma” cioè una identità costituita da vari innesti,polistrutturale, ben diversa per struttura e origine, dalla cosiddetta “identità-radice”, unitaria e monostrutturale. La circolarità del viaggio, l’impossibilità di bloccare la dinamica avvicinamento-allontanamento in rapporto ad una spazialità statica, determinano una percezione del luogo come molteplicità, così come l’identità non è più unica, ma frantumata, molteplice, stratificata dalla autobiografia relazionale dei personaggi.

Ma, come ammonisce Tullio, il padre, in uno dei tanti colloqui con il figlio, disseminati e cadenzati dalle occasioni del ritorno,

 

la strada del ritorno, quella non si deve mai scordare, bir, altrimenti ti perdi in un bosco fitto e spinoso, ti senti fucare, se non hai uno sbocco di fuga alle tue spalle[4].

 

E’ questa la ragione per cui, in una prospettiva vagamente proustiana, la madre dell’io-personaggio prepara le conserve per il ritorno del padre a Natale. La fissità della festa rituale attraverso la quale si rinnova la condensazione del mito è unica garanzia per ritrovare il tempo-spazio trascorso, attraverso i cibi e i sapori.

    Il rapporto padre-figlio, con la sua conseguente dimensione di educazione sentimentale e sociale, si sviluppa dunque in un ritmo di consapevole precarietà. La percezione dell’assenza periodica del padre da parte del figlio è correlativa allo straniamento spaziale e psicologico del padre. Sicché ogni ritorno del genitore è sentito dal fanciullo come una epifania gnoseologica che egli vorrebbe definitiva. Sul piano stilistico questa tensione alla stabilità emotiva e relazionale è espressa dalla insistenza frequenziale del verbo ri-conoscere o da brevi sequenze che esprimono in poche righe la felicità del figlio per la presenza accanto a sé del padre:

 

Il giorno dopo mi svegliai molto presto, entrai scalzo nella stanza dei miei genitori e mi avvicinai al                                             lettone per accertarmi che mio padre fosse vero, in carne e ossa; per sicurezza lo toccai con un dito sulla schiena e poi andai a dormire felice, abbracciando il pallone di cuoio.

Avevo paura che fosse tutto un sogno.[5]

      

 

Camminavo al fianco di mio padre, solo questo mi importava.[6]

 

 L’io protagonista attiva nella sua psicologia un meccanismo di rimozione dell’angoscia creata dal rapporto disforico tra soggetto e assenza del genitore e tende a selezionare solo frammenti non precari di euforia interattiva:

 

Nelle settimane successive mi abituai alla presenza di mio padre e cercai di convincermi che era ritornato per sempre. Succedeva così a ogni ritorno. Volevo dimenticare i lunghi periodi senza di lui, cancellare dalla mente la parola Francia, anzi “Fròncia”, come diciamo noi, e non mi azzardavo mai a chiedergli se per caso aveva intenzione di ripartire. Se poi mi rispondeva “Sì, devo”, avrei sofferto fino al giorno della partenza.[7]

 

 

 Il ragazzo volge il suo sguardo proiettivo verso una natura idillica, foriera di serenità nel suo ciclo vitale,

 

Non ricordo parole, all’inizio, solo il sottofondo musicale degli uccelli e i colori sgargianti d’aprile: il rosso delle colline di sulla, il giallo e l’arancione delle margherite, il bianco fiorito dei ciliegi, il verde lucido dei lecci e poi il cielo, di un azzurro luminoso che rallegrava le pupille.[8]

 

E questa focalizzazione del paesaggio calabrese, descritto con un forte tasso di visività e iconicità, soddisfa il desiderio infantile di rapportarsi con uno spazio definito, in qualche modo posseduto tramite lo sguardo, una sorta di locus amoenus garantito dalla presenza del padre, in cui si condensa il mito dell’innocenza preadamitica. Per contrasto, l’assenza del genitore attiva il ruolo compensatorio dell’immaginario e del sogno, in un processo di interiorizzazione  che fa da filtro ad una esistenza cadenzata da un continuo alternarsi di felicità e sofferenza.

Lo spazio dell’emigrante è invece sospeso, il rapporto tra io e paesaggio è continuamente frantumato, così come il tempo rettilineo della permanenza è interrotto da improvvise partenze tra Calabria e Francia.

Il desiderio del ritorno, la nostalgia, non presenta unicamente caratteri consolatori. E’ anzi motivo di continua sofferenza per il figlio che avverte l’assenza della figura del padre ogni volta che questi si distacca da lui e per il padre che è condannato a muoversi in una ‛epoché’ spazio-temporale in cui il luogo non è più territorio ma uno spazio in movimento, quello che determina appunto una identità relazionale. L’ansia continua del nostos, che interviene sulla percezione psicologica del tempo da parte del fanciullo (“Di solito era l’inverno la stagione del ritorno […] pure il tempo accelerava”[9]) si trasforma in un processo archetipico e diviene una forma di conoscenza, che lega sentimento e  comprensione, condensata nelle parole di John Fante, anche lui scrittore figlio di italiani immigrati negli Stati Uniti, poste da Abate ad epigrafe del suo romanzo: “Per scrivere bisogna amare, / e per amare bisogna capire”.

  Il tema del viaggio come condizione esistenziale, come condanna sociale, trama tutto il romanzo.

La stessa crescita esistenziale del protagonista Marco è un cammino nella quotidianità che si fa giorno per giorno storia, un tragitto verso la libertà, forse utopica, delle proprie scelte, cadenzato dal progressivo accumulo di esperienza di un bambino che utilizza il suo punto di vista sul microcosmo familiare come forma primaria di conoscenza.

 E se l’andare senza meta, come capita al personaggio misterioso, al “paccio” che va, come egli risponde ad una domanda di Tullio, “dove lo portano i piedi”, può essere motivo di serena immersione nella natura, la condizione dell’emigrante produce inesorabilmente sofferenza, continua amarezza per il distacco dai propri cari e dalla propria terra:

 

E la vita passa e noi non ci godiamo né i figli né la moglie né questa bella terra germogliata e un po’      pellizzona.[10]

 

      Lo spostamento, la dislocazione, la mancanza di uno spazio-tempo fisso, determinano fenomeni di alienazione, di frantumazione del rapporto identità-comunità su cui si basa il riconoscimento sociale dell’individuo.

Ciò costringe l’emigrante a sentire la propria “diversità” sia nei confronti di coloro che sono restati sia nei confronti degli abitanti che lo hanno accolto; insomma è un forestiero in casa e fuori.

Ma su questo piano si può sostenere che La festa del ritorno ha come parola-chiave proprio la “diversità”. E’ diversa la comunità arbëresh di Hora (metafora di Carfizzi) rispetto al territorio circostante, è diverso Tullio, che non vede l’ora di diventare ex emigrante, dagli altri padri, è diversa Elisa dagli altri familiari, per il fatto che studia all’università di Cosenza e che “non vedeva l’ora di partire”, è diverso Marco che vorrebbe il padre sempre vicino e che invece ripeterà l’esperienza del padre, annientando con la realtà della sua emigrazione il sogno coltivato dal padre:

 

Un giorno avrei comprato una valigia di finta pelle. A diciott’anni e sette mesi, per essere precisi. Lui mi chiede a cosa serve quella valigia, fingendo di non saperlo. Al posto delle parole mi esce un sorriso d’imbarazzo. Avvicino il pugno alla tempia come se stringessi una pistola e aspetto che parli. Per un po’ mio padre resta intrappolato in un sogno lontano che cancella le parole, i ricordi malamenti, il fuoco di Natale. Infine fa la voce arrogante del bagasciaro nato:”Senti a me, bir, non partire”.[11]

 

 

Conseguentemente l’idea di patria ( in cui è inserito semanticamente il concetto di paternità) non può più essere radicata in una spazialità definita territorialmente ma va elaborata attraverso un processo memoriale che accumuli materiale utile per la identificazione del sé.

La sopravvivenza identitaria è così garantita dal sussistere del soggetto nella diversità, attraverso una dinamica di contaminazione della categorie cronotopiche. Centralità e marginalità, storia e mito, paesaggio e memoria, scrittura e oralità, si intrecciano continuamente sulla pagina creando nel lettore la percezione di una narrazione epica e corale.

In questo senso la patria, il microcosmo del caos-mondo , è nella opzione plurilinguistica del romanzo, in cui è presente un agglomerato di lemmi italiani, arbëresh, calabresi, di calchi francesi e tedeschi. Si tratta di una lingua che ha conosciuto un personale processo di “creolizzazione” e che sul piano formale è lo specchio della compresenza dell’altro in un soggetto sottoposto ad un continuo processo di disseminazione e tuttavia pronto ad una attitudine inclusiva.

Abate fa proprio,in una forte proiezione di contemporaneità, il monito di Primo Levi che aveva sostenuto che “l’ibrido è l’uomo dopo Auschwitz”[12].

Non si tratta di un espediente stilistico secondo la tipologia del “pastiche”. Ogni inserto differenziale-linguistico è funzionale alla narrazione. Spesso le frasi in arbëresh, che portano lo stigma della emotività e della familiarità, non sono tradotte, se non in parte, perché la loro semantizzazione è affidata al contesto. Oppure l’adozione di termini derivati da altre lingue che sono quelle con cui il personaggio del padre è venuto in contatto durante le sue esperienze all’estero è motivata dal fatto che questi lemmi veicolano la dimensione sociologica dell’emigrazione.

L’elemento unificante di tante diversità biografiche, generazionali, linguistiche, resta il racconto, l’atto perlocutorio, offerto all’altro attraverso la propria esperienza, il colloquio tra molti per comprendere e comprendersi.

C’è nel romanzo un sequenza, quella della scolarizzazione,  che può considerarsi emblematica del disagio che un giovane prova se subisce una delocalizzazione spaziale e linguistica, magari esercitata per realizzare una integrazione sociale ma che viene vissuta dal protagonista come una esperienza deludente,

 

Ero entrato in classe con apprensione e curiosità, e mezz’ora dopo già sbadigliavo: non capivo un’acca di quello che la maestra spiegava. Penzavo ca a la sckola si parrasse taliano come parravano l’anziani cu i furesteri c’accattavanu e vindianu a robba ‘nta la chiazza o puramenti i teatristi ca cantavano “che bella cosa è na jurnata ‘e sole” o u papà miu quandu si facia a varva, “l’aria serena para già na festa”, na festa ranna come quando illu riturnava da la Fròncia.

Invece la maestra usava parole straniere a me sconosciute. «Facciamo l’appello.» L’appello? « E chi vo’ chista cca e mia?» mi sforzavo di chiedere in “taliano” alla bambina di quinta che la maestra mi aveva messo accanto.[13]

 

compensata soltanto dal piacere di ritrovarsi con i coetanei dello stesso gruppo linguistico, dando sfogo alla pulsione del racconto orale, quello che per secoli ha rappresentato la forma più socializzata e più formalizzata della tradizione popolare.

 

La mia classe era piena di ripetenti che in genere avevano due o tre anni più di me. In italiano non riuscivano a dire una frase corretta, ma erano bravissimi a raccontare storie nella nostra lingua, storie interminabili, avventurose e a volte erotiche, che interrompevano solo quando suonava la campanella.[14]

 

La struttura del romanzo, nel succedersi delle partenze e dei ritorni, nella presenza costante del tema del viaggio, nel procedere delle esperienze esistenziali del protagonista sotto la guida del genitore, presenta un andamento che lo avvicina al romanzo di formazione. Ma i personaggi sono come collocati in un presente mitico. Attorno al fuoco della festa del ritorno le vicende di ognuno di essi, rese emblematiche dalla parola scritta, si purificano e assumono un valore archetipico. Ma se la figura maschile del padre si definisce attraverso un ininterrotto narrare la propria storia ai componenti della comunità, le figure femminili, in particolare quelle familiari, ( la mamma, la nonna, Elisa, la Piccola)  sono vestite di lunghi silenzi, immerse nella coazione a ripetere di gesti senza tempo, icone di una esistenza condotta secondo i ritmi della natura, tracce persistenti del mito della grande madre terra.

 

Ed è ad una figura femminile, indimenticabile per il lettore, che Abate affida la funzione di attante, di elemento dinamico della narrazione e insieme di connettivo tra le varie sequenze, quella della cagnetta Spertina.

Tutta l’esperienza è come affidata e concentrata nel nome di questa fedele compagna che, nella prima e nella seconda parte del romanzo, spesso, apre e chiude, con i suoi gesti istintivi, la cronotopia dei vari capitoli.

 Anche il tempo diventa circolare, quasi che grazie al mito, possa il passato tornare per indirizzare il futuro, spingere a compiere scelte non obbligate da “una pistola alla tempia” ma consapevoli e libere, atti volontari di uomini responsabili della propria esistenza.

In una struttura narrativa a blocchi, sottolineata anche dall’utilizzo della ripresa, in particolare tra il primo e il secondo capitolo, oscillante tra reale e immaginario,unico punto fisso è il racconto, di uno e di molti, attorno al fuoco di Natale che  brucia parole e pensieri:

 

Poi, rivolto ai suoi tre amici, ripeté che il fuoco era davvero superbo, një ziarr shumë i bukur, davvero, un fuoco che pareva fatto apposta per…Così. Con uno stop brusco. Afferrò la bottiglia di birra e la scolò fino all’ultima goccia.

Restammo tutti zitti nell’attesa che concludesse il pensiero e guardammo il fuoco con gli occhi trasognati, come se lo vedessimo per la prima volta. Mio padre non parlava. Le fiamme più alte dondolavano spinte dal vento. Sentivo distintamente la loro voce frusciante e segreta.[15]

 

 

Abate, attraverso il reticolato delle narrazioni orali, non solo realizza la mise en abîme del suo racconto ma conferma la funzione gnoseologica di queste, intese come testimonianza evenemenziale e trasferimento dell’esperienza.

Il rito del grande falò, secondo la tradizione folklorica, è la malinconica iterazione di un mito della comunità-famiglia che spera in una rinascita; un rito che nel momento stesso in cui viene celebrato presuppone il successivo gesto dell’abbandono. Ciononostante la fiaccola dell’utopia non si riduce in cenere. Anzi. Attraverso la narrazione bruciano le scorie di una esistenza fatta di dolorose attese e di altrettanto dolorose disillusioni e risplendono aduste le speranze individuali e collettive in un mondo meno ingiusto, in cui ogni uomo abbia il diritto all’amore e alla pace.


 

[1] Carmine Abate, Storie di germanesi, “L’Indice”, dicembre 2000.

 

[2] Carmine Abate, La festa del ritorno, Mondadori, Milano 2004, pp.32-33 passsim

[3] Édouard Glissant, Poetica del diverso, Meltemi, 1998,p.28

[4] Carmine Abate, La festa del ritorno, cit.,  p.60

[5] (p.19)

[6] (p.20)

[7] (p..25)

[8] (p.20)

[9]  (p. 19)

[10] (p. 26)

[11] ( p. 161)

[12] Vedi Marco Belpoliti, Primo Levi, Riga 13, Milano, Marcos y Marcos, 1997, p.189

[13] Carmine Abate, La festa del ritorno, op.cit., pp.71-72

[14] (p.73)

[15] (pp.13-14)

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