Tra il blu del Tirreno e il verde dello Ionio Gente dei due mari, popolazioni simili eppure diverse nell'ultimo volume di Carmine Abate di Domenico Cacopardo Gente di punta, gente di capo: di
Posillipo, dove i due golfi Napoli e Pozzuoli possono essere abbracciati da
una posizione unica, quella di Torre Ranieri, vecchia e mitica costruzione
proprio in cima, sullo spartiacque; di Massalubrense e di Sant'Agata, i
posti dai quali le grandi insenature di Salerno e, ancora, di Napoli si
dominano incontrastati. Gente dei Peloritani, dell'Antenna a Mare e della
Montagna Grande, alte balconate sullo Ionio e la Calabria e sul Tirreno e le
Eolie, da conquistare con faticose escursioni. Gente come Carmine Abate, di
Aspromonte, che dei due mari si nutre e ci nutre con storie e sentimenti
unici. In effetti ci riferiamo a un genus di persone speciali che trovano
nell'ascensione e nel raggiungimento del crinale la gioia di scoprire e di
rivedere una, dieci, cento volte il diorama di due mondi, di due
popolazioni, tanto simili eppure diversi, di due colori, magari il blu del
Tirreno e il verde dell'Ionio. Gente che il caso ha gettato su un territorio
di discrimine, di taglio e di sintesi. Gente che è un ossimoro vivente:
l'isolamento della cima e l'incontro con coloro che, da tutto il mondo, sono
animati dalla stessa volontà di ricerca e, perché no, di dominio,
dall'alto, della natura. È questo l'habitat nel quale si muove Carmine
Abate, un contesto che comprende la Volvo - l'auto, abitazione viaggiante,
rifugio nell'intimità familiare - che lo porta al Fondaco del Fico, da
sempre il luogo dei due mari: "…una sputazzata nell'occhio, un muro
di pietre abbrustolite che fa brutta mostra di sé tra roveti e cespugli di
fico selvatico…". Un Fondaco primattore, paradigma del cambiamento e
dell'immobilità, del valore e del disvalore. I resti mitici e mitizzati del
Fondaco: una casa di antiche glorie, di visite illustri - Alexandre Dumas
(padre) vi ha scoperto il grande paesaggio dello Stretto -, di amore forte.
L'amore per il recupero della sua storia, della sua struttura, della sua
vita. Calabresi e siciliani spesso non amano la loro terra e ne hanno
consentito il saccheggio e la distruzione, un abuso dopo l'altro, un condono
dopo l'altro con capitali di provenienza povera - gli emigranti col
desiderio di farsi la casa della vecchiaia, una vecchiaia che non verrà mai
perché il tempo e i figli e i nipoti li legheranno indissolubilmente alle
loro nuove patrie amare - ma anche mafiosi, che, di quelle piccole
costruzioni, una stanza sopra l'altra, si fanno scudo e alibi. E questo
amore di Carmine Abate che pervade il suo romanzo, è un amore puro, candido
e profondo per pietre, rovi e visioni da restituire alla vita, cioè
all'uomo, senza speculazioni e devastanti ampliamenti. L'amore per la
Calabria che lo porta varie volte da Amburgo a Roccalba in un interminabile
viaggio - metafora persistente della vita - che si dipana lungo paesaggi e
paesi ignoti, ma conosciuti negli attraversamenti, verso questa mitica Sion,
l'alma mater del ritorno dalla diaspora. Un ritorno - che è anche un'andata
- che ispessisce il tessuto letterario, mai insistito, ma immanente,
leit-motiv dolce, dolente e doloroso: "il paese si era svuotato,
centinaio di auto e famiglie intere erano rientrate nelle città, le rondini
impazzite….si stavano preparando al loro lungo viaggio…". L'amore
per il bergamotto e i suoi unici umori, quelli che solo gli abitatori dello
Stretto possono ricordare e, talora, risentire di nuovo penetrare le narici
nella sporadica e rara attualità coltiva. E l'amore di Florian e Martina,
la donna dagli occhi verdi come i lecci, che è solidale con lui e con la
sua volontà di restitutio del Fondaco. Un amore per una regione, la regione
dello Stretto, che trova, dopo Stefano D'Arrigo, un altro cantore. Un
cantore di sentimenti piani, identificabili, elementari - i nonni, Giorgio,
il Fondaco, Martina - più facili di quelli dell'autore messinese, ma
sicuramente più diretti e comprensibili. Abate, infine, scrive in italiano:
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