La rivista dei libri
febbraio 2003

Carmine Abate, uno “straniero” in Italia

Renato Nisticò


     Non sembra neanche uno scrittore italiano, Carmine Abate; e pertanto è di difficile collocazione in una qualsiasi delle attuali tendenze della nostra narrativa. Piuttosto è assimilabile a quegli autori stranieri (irlandesi, indiani, nordafricani, etc.), rinnovati campioni della goethiana Weltliteratur capaci di esprimersi al di là degli angusti confini nazionali. Quando in Italia è uscito il suo primo romanzo, Il ballo tondo, i primi disorientati recensori hanno dovuto recarsi a una latitudine molto lontana dalla nostra, per trovare dei modelli di riferimento, accostandolo al realismo magico e visionario di Garcia Márquez. Abate si schermì; dichiarò di non averlo letto; e che di magia era piuttosto intrisa la cultura della sua famiglia, la sua gente, il paesino di Carfizzi, a monte di Crotone, uno dei tanti di etnia arbëresche che si trovano in territorio magnogreco. Ora gli fa eco, sulle colonne del Nouvel observateur (Abate è tradotto in Francia da Seuil, e in numerose altre lingue europee), il giudizio competente di Frédéric Vitroux, che lo situa assai distante dal «somptueux délire baroque» del colombiano, e ne rimarca l’originalità. Di certo, Abate è uno scrittore epico, come pochi ne abbiamo in Italia. A questo tipo di scrittura potremmo oggi associare rari altri autori nostrani, come Meneghello, ad esempio, o, ancora più indietro, Fenoglio, ma soltanto previa loro iscrizione nell’orizzonte della provincia, e nel tempo della modernità dispiegata, ormai quasi crepuscolare. Abate ha confini più sfumati e impalpabili; orizzonti più ampi, maggiori presentimenti di futuri sviluppi. I protagonisti delle sue storie sono i “germanesi” di Hora, toponimo d’invenzione che riunisce in un luogo ideale il disperso popolo arbëresche. Essi fanno la spola fra la Calabria e le metropoli tedesche, dove emigrano per trovare lavoro, ma da dove non mancano di far ritorno, per godere, se ci riescono, della fortuna maturata. Cronaca quotidiana, si direbbe; ma Abate riesce a renderla epica, tramite un punto di vista narrativo ingenuo, posto in basso, quasi sempre appartenente alla figura di un adolescente in formazione, il quale conferisce alle figure di adulti, altrimenti ordinarie, un alone di grandezza. Ma lo fa anche con il proiettare le vicende della gente di Hora sullo schermo della tradizione mitica, leggendaria degli arbëresche. Alle spalle della narrativa di Abate, fortemente nutrita di un folklore ancora tramandato oralmente, si accampa infatti come suo necessario antecedente la vicenda eroica del grande condottiero Scanderbeg, il quale appartiene a una storia così remota da sfumare nella leggenda e nel mito. L’“aquila a due teste”, fiero difensore del popolo albanese durante l’invasione dei turchi nel XVI secolo, capitolando, aprì la via della prima grande emigrazione albanese in Italia. Il patrimonio di leggende e rapsodie che ne discese, resistendo a questo evento traumatico, ordina e prefigura, immaginariamente, le storie dei germanesi di Hora, curvando il tempo mitico sul tempo in divenire del presente. Abate riesce così a scavare, nel vettore progressivo della modernità, alcune nicchie di una temporalità ciclica, nelle quali i suoi personaggi si attardano a contemplare il passato esattamente come fa l’emblema dell’”aquila a due teste”, mentre continua, un po’ come il benjaminiano angelo di Klee, a guardare in avanti, verso il futuro. Un’epica, dunque, ‘contromoderna’.

     Il ballo tondo si apre con la leggenda di Costantino il Piccolo che va in guerra e, dopo nove anni e nove giorni, torna al suo paese per sposare la donna che gli era stata promessa, prima che convoli a nozze con altro pretendente. Parallelamente, ai nostri giorni (siamo fra i Cinquanta e i Settanta), il Mericano, sul punto di sposare, parte per deporre un fiore sulla tomba del padre emigrato in America e morto nel crollo di una miniera. Arrivato al porto di Genova, viene derubato dei suoi averi, e prima di fare ritorno a Hora, vi si attarda anche lui nove anni e nove giorni, come a voler cadenzare il suo passo sul tempo mitico. Si attua così la fusione, caratteristica in Abate, fra il tempo dell’epica antica, e la condizione di disincanto della modernità aperta a un futuro incerto, problematico. Il Mericano, del resto, si chiama così anche perché somiglia maledettamente a Clarke Gable in Via col vento, di cui si sono innamorate tutte le donne di Hora rubandone gli sguardi sugli schermi. A contatto con la modernità e i suoi riti di massa, e vittoriosamente sfidando il kitsch e la parodia (in agguato per il confronto con le canzonette, i programmi tv e la retorica consumistica dell’oggi), l’epica antica non si smorza ma si arricchisce di nuovi miti, come in questo caso, appunto, il cinematografo. Altre figure, nel romanzo, sono maggiormente compromesse con la longue durée della storia che trascorre nel mito. Come ad esempio Luca Rodotà di Corone, il rapsodo che percorre a dorso di mulo le contrade calabresi per suonare alle feste la lehuta passata di generazione in generazione; o il nani Lissandro, il vegliardo padre del Mericano, che condivide con il rapsodo l’indefinibile età, la facoltà di comunicare oniricamente e la telepatia. Sono loro che introducono il piccolo Costantino, il fanciullo ancora inesperto del mondo, alla visione dell’”aquila con due teste”, e cioè a quella verità che vede nel rinnovarsi della tradizione, nella vivificazione della memoria, le uniche garanzie di senso (e di felicità) nell’incerto presente, le cui nuove ingenerano un misto di eccitazione e paura. Lo sa bene il giovane insegnante Carmelo Bevilacqua, che non è arbëresche e viene da fuori, ma che di questa tradizione si innamora e si fa custode e divulgatore. Tuttavia non manca di ribellarsi, quando è il caso, ai soffocanti rituali paesani, anteponendo innanzi a tutto la realizzazione dei suoi ideali. Egli, con il suo esempio, indica una tradizione che non può mantenersi sempre uguale a se stessa, ma deve di continuo inverarsi nei destini individuali, cioè nella Storia. Bevilacqua possiede un’altra precisa caratteristica dei personaggi di Abate, l’inquietudine esistenziale. Quasi tutti, fra loro, proprio come il Mericano, non trovano stabile dimora da nessuna parte. Forse influenzati dalla migrazione archetipa, originaria del loro popolo, perpetuano un’erranza fisica e mentale che li porta a un continuo desiderio dell’altrove. Quando è a Hora, il Mericano sogna Ludwigsahfen, e viceversa: egli incarna la proiezione dell’eros sulle strutture della realtà, esprime un desiderio che progressivamente si realizza, e impregna delle sue trame lo svolgersi della narrazione.

     Da una identica inquietudine sono caratterizzati anche i protagonisti dei racconti del Muro dei muri, ambientati quasi tutti nelle metropoli industriali di Germania, o ad Hora, che si profila appunto come la faccia oscura e meridionale del moderno, l’”altra Europa”, per parafrasare un celebre titolo di Galasso. Ad essi tocca spesso la sorte dura, ma per certi versi esaltante, di doversi ribellare non solo alle spietate, disumane leggi del mercato del lavoro capitalistico, quanto anche ai connazionali inclini ad accettare la tolleranza loro riservata dalla ipocrita “socialdemocrazia” tedesca. Essi misurano un salto generazionale, e una frattura politico culturale di portata epocale. Dall’orizzonte collettivo dell’operaismo antagonista transitano verso un destino individuale ed erratico. I giovani immigrati si aprono al confronto multiculturale, frequentano il ‘dissenso’ tedesco, fanno all’amore con le ragazze del luogo, si ibridizzano. Anche per questo, forse, sperimentano, dopo il crollo del Muro di Berlino, al tramonto cioè delle “grandi narrazioni”, l’amaro frutto del razzismo e del nazismo; tristi ideologie di ritorno che si ergono come forse invalicabile “muro dei muri” nel racconto eponimo, che chiude la raccolta. In questi racconti, tuttavia, la tradizione non viene accantonata. Il ‘metodo mitico’ di Abate (così diverso dal distante antecedente eliotiano, e più vicino, semmai, a certe indicazioni del nostro Fausto Curi), può essere certamente letto anche come risorsa critica per scalfire l’opaca superficie del reale e ribaltarne l’ideologia totalizzante; e si profila come una sorta di utopia in nuce. Incastonato fra gli altri racconti c’è n’è uno, breve e intensissimo, che, raccontando la dissacrazione fanciullesca della leggenda (metropolitana, diremmo oggi), sul presunto ritrovamento del tesoro del mitico condottiero patriarca, fa da ponte fra la temporalità mitica della tradizione e il tempo acerbo della modernità.

Nella Moto di Scanderbeg¸ opera polifonica, narrata a più voci, forse a sottolineare l’unità del molteplice (o la multiformità del reale), tutti si chiamano con lo stesso nome: l’antico condottiero, il giovane protagonista Giovanni Alessi, e il padre, lo Scanderbeg che a cavallo di una moto Guzzi Dondolino guida la lotta dei contadini calabresi durante le occupazioni dei latifondi nel secondo dopoguerra. La tradizione narrativa del realismo sociale viene così citata da Abate, ma per rimarcarne la distanza tramite l’efficace tratteggio della personalità eroica, un po’ anarchica e strafottente di ‘Scanderbeg della moto’. Egli muore giovane in un gesto sbruffone che non sarebbe dispiaciuto al Pasolini cantore di borgate, e lascia orfano il povero Giovanni, che così non potrà mai “uccidere il padre”. Il padre assente è una figura costante, leit-motiv della narrativa di Abate; che ricade dal mito della diaspora (per cui la realtà non può essere vissuta che come degradazione di una condizione eroica e come eterno dissidio con l’esistente) sulla condizione reale delle famiglie di emigrati. L’irrisolto, perché improponibile, conflitto edipico, si accompagna a un eros gioioso e solare, ma alla fine perennemente insoddisfatto, che va di pari passo con l’impossibilità di definire le trame narrative, come direbbe Peter Brooks, e di concludere le vicende; che così rimangono aperte, a sollecitare sempre nuove narrazioni, in un continuo scivolamento del significante narrativo attorno a una possibile definizione di reale significato. Anche Giovanni insegue per tutta la vita la sua eterna fidanzata, la bella e spregiudicata giornalista Claudia. Ella è metafora della Grande Madre Terra (o della piccola terra d’Arberia), il cui possesso, ai personaggi di Abate, non è mai concesso raggiungere, liberando così un desiderio di compimento e realizzazione che non si appaga mai, ma di cui è necessario, è etico, attuare una ricerca, perfino ostinata. Diversamente da quanto accade in pressoché tutta la narrativa contemporanea, i personaggi di Abate vincolano la loro esistenza alla realizzazione di un progetto ben preciso di cui essi saranno gli unici artefici. Nel contempo si sentiranno anche i rituali esecutori di un destino, di un segreto ordine del cosmo, che sta dietro lo stato apparente e caotico delle cose (che può anche chiamarsi magia, ma che ha poco, o solo qualcosa, della ragione occidentale). Il lettore viene coinvolto in questa esaltante ricerca della felicità, e ogni brano pur piccolo di realtà, che possa essere visto come il luogo, se pure immaginario, della soddisfazione, riluce come una sorta di piccolo Eldorado strappato al non-essere. I personaggi di Abate vivono in una dimensione molto differente dai loro simili di altri romanzi contemporanei, cui tocca di non sentirsi consistere in una realtà che essi, eterni spettatori, guardano come un film, o una televisione infinita. I personaggi di Abate, al contrario, sanno di essere visibili sullo sfondo del loro orizzonte collettivo, corale; fanno parte di una tradizione culturale che in loro si incarna e realizza. Possono narrare/narrarsi le loro vite proprio come se fossero dei personaggi di un racconto. In Abate, narratività dell’esperienza e logica narrativa si fondono felicemente.

     La rivelazione magica dell’esistenza autentica, l’iniziazione alla vera vita sono anche al centro dell’ultimo, recente, romanzo di Abate, Tra due mari. Il testimonio che l’ultimo rappresentante del campionario di patriarchi estrosi, simpatici e pletorici offerto dal nostro autore, ossia il sempre redivivo Giorgio Bellusci, cede al nipote Florian come pegno in favore della sua opera di conservazione e tradizione della memoria, è un prezioso quaderno contenente il diario di viaggio di Alexander Dumas in Calabria, da questi dimenticato al Fondaco del Fico, durante le sue peregrinazioni meridionali, nel 1835. Il Fondaco, una storica locanda frequentata dai viaggiatori stranieri del Grand Tour, è in qualche modo il vero protagonista del romanzo, simbolo nobilitante, di quella conversione dei proventi dell’emigrazione in proprietà di immobili, che alletta tutti i “germanesi” di Hora; e che qui si rafforza come metafora della continuità e della dignità di un’intera memoria, anzi della memoria in quanto tale. Al centro del racconto è infatti il sogno di Giorgio Bellusci di riedificare lo storico Fondaco sugli ultimi suoi resti, facendone un albergo con piscina nella campagna di Roccalba, paese posto in quella parte mediana della Calabria che si restringe fino quasi a far toccare i due mari che la attorniano, il Tirreno e lo Jonio. Il sogno sembra quasi realizzarsi quando la ‘ndrangheta vi si intromette. Giorgio Bellusci non si piega al suo prepotente disegno, ma risolve la questione alla sua maniera, con un omicidio feroce di cui poi finirà per pentirsi, attraverso l’acculturazione coatta in carcere. Il suo entusiasmo, la sua indomita volontà di riedificazione, tuttavia, finiranno per contagiare l’intera famiglia, compreso il ramo emigrato ad Amburgo. Coinvolgono perfino il giovane Florian, che dapprima rifiuta, da immigrato tedesco di seconda generazione, le sue origini meridionali e la sua storia; ma poi finisce per reimpadronirsene, attraverso la solita via regia dell’eros (qui la delicata storia d’amore con la graziosa Martina), che si perfeziona in conoscenza del diverso e consapevolezza della propria continuità storica. Anche in questo romanzo è attiva la stratificazione temporale, tipica di Abate, fondata sui ricorsi storici. Come nei precedenti lavori, i protagonisti sono quasi condannati dal loro stesso desiderio di conoscenza e di realizzazione, a ripercorrere strade (in senso fisico e ideale) già battute da altri in epoche diverse della Storia, ma che, passo dopo passo, si arricchiscono dell’intenso e inebriante profumo della vita vissuta che Abate ci fa avvertire con apposito dispositivo sensorio, materializzando sulla pagina i sapori delle pietanze piccanti, colorate e appetitose della cucina arberesche, i profumi di una natura rigogliosa, le immagini di fanciulle incantevoli e innamorate (alle donne spetta, nel mondo di Abate, la custodia della concretezza, della serietà, e della tenerezza domestica, di cui i maschi, narcisi protesi alla conquista di spazi sociali, davvero non dispongono). La particolare, sorprendente felicità narrativa di Abate, discende da un originale sguardo sul mondo; e dal ritmo della narrazione che si distende ad ondate, armonizzando in ampie curve geometriche il susseguirsi caotico degli eventi. Un personaggio chiave del romanzo, il grande fotografo Hans Heumann, accomunato al destino dell’amico Giorgio Bellusci, dice a un certo punto che non sono importanti i soggetti delle sue foto, ma la luce che vi sosta attorno. La qual cosa vale come una dichiarazione di poetica dello stesso autore. Attorno a questi epici e picareschi personaggi di Abate è una luce di ordinaria grandezza che stimola nel lettore il sogno della realtà.

 

I libri di cui si è parlato:
 

Il ballo tondo (Marietti, 1991; ora Fazi, 2000)

Il muro dei muri (Argo, 1993)

La moto di Scanderbeg (Fazi, 1999; ora nei Tascabili, 2001)

Tra due mari (Mondadori, 2002)
 

                                                                     Renato Nisticò