World on Line


L'amico degli emigranti
Intervista a Carmine Abate

di Fulvio Panzeri


Carmine Abate è uno scrittore che vive a Trento e che nella sua narrativa privilegia i temi legati all'emigrazione, con tutto ciò che comporta il ritrovarsi in un paese straniero. Un altro tema importante è quello della nostalgia del proprio paese e della cultura d'origine, quella degli albanesi di Calabria e della cultura della comunità "arbereshe". Sono temi che ha affrontato nei romanzi "La moto di Scanderbeg" e in "Il ballo tondo", riproposto in questi giorni dall'editore Fazi.
Il tuo primo romanzo, "Il ballo tondo" è stato poco letto in Italia, ma ha avuto una vasta eco internazionale. È stato tradotto in Germania, in Albania, in Kosovo.
Come ti spieghi questo interesse?
In Albania e in Kosovo, l'interesse è facilmente spiegabile con il fatto che il mio romanzo era il primo che narrava la storia di una comunità arbereshe di oggi, fondata cinque secoli fa proprio dai profughi albanesi sfuggiti alla dominazione ottomana. In qualche modo era un libro atteso da tempo.
Mi ricordo che gli editori albanesi, pur di pubblicarlo il più presto possibile, non avendo in quegli anni neanche una risma di carta, riciclarono le opere complete di Stalin, e stamparono 5000 copie del mio libro. Per quanto riguarda l'area tedesca (il libro è andato molto bene anche in Svizzera e in Austria), forse i critici e i lettori hanno apprezzato il mio tentativo di raccontare per il gusto del raccontare e, attraverso le storie narrate, farli entrare in un mondo assolutamente sconosciuto: qualcuno l'ha definito, un po' esagerando, l'ultimo segreto d'Europa. Del resto "Il ballo tondo" era il mio primo libro in Italia, mentre in Germania mi conoscevano già per due libri del 1984 sull'emigrazione: un'indagine socio-antropologica dal titolo "I Germanesi" e un libro di racconti, "Den Koffer und weg!", che è stato il mio esordio come narratore e che raccoglieva le mie prime storie di emigrati in Germania.
Anche Giovanni Alessi, il protagonista di 'La moto di Scanderbeg', sceglie di abbandonare Hora, la cittadina calabrese in cui è nato, per emigrare a Colonia. Il tema dell'emigrazione e dello 'straniero' in un'altra patria è sempre presente nei tuoi libri. Perché? Direi per motivi autobiografici, almeno in un primo momento. Pensa che ho cominciato a scrivere, giovanissimo, proprio perché ho sentito l'esigenza di denunciare l'ingiustizia della costrizione ad emigrare. Si trattava di testi in cui la figura dell'emigrato veniva idealizzata ed era sempre la sintesi del cugino Pavese, gran conoscitore del mondo, e mio padre, emigrato quando io avevo quattro anni. Poi, dopo la laurea, ho vissuto sulla mia pelle la costrizione ad emigrare, l'altalena tra il Nord e il Sud, il razzismo, le difficoltà d'integrazione in un paese straniero; però col tempo ho colto anche gli aspetti positivi che ci sono in quest'esperienza, per non parlare delle grandi potenzialità narrative e linguistiche. I miei personaggi vivono in più culture e lingue: l'arberesh, l'italiano, il calabrese, il tedesco, il germanese, cioè la lingua ibrida degli emigrati; si dibattono nei grandi temi dell'Europa di oggi, che io come narratore non posso fare a meno di affrontare.
In effetti la tua narrativa affronta un tema oggi molto attuale: quello del riconoscimento e della difesa delle culture degli altri. Che cosa ne pensi? Beh, è importante per l'intera Europa. Anzi, altrove è stato trattato già da anni, il che non significa che sia stato risolto. Gli "altri" sono visti dappertutto come dei potenziali pericoli e ci si dimentica che appena uno fa un passo e attraversa un confine diventa l'altro dell'altro. E così attorno alle culture degli altri, ad esempio dei marocchini in Italia o dei turchi in Germania, si innalzano barriere sempre più alte, difficilmente attraversabili. È un'assurdità che spesso sfocia nelle manifestazioni violente che tutti conosciamo. E per giunta anacronistica, perché viviamo già in una società europea multiculturale in cui, quando avviene, l'incontro tra due o più culture arricchisce tutti. Senza contare che questa mescolanza produce nuovi sguardi, linguaggi, storie che ci consentono di affrontare con più strumenti la realtà di oggi, potandola di tutti i pregiudizi che le spuntano addosso.
Come il tuo bel romanzo d'esordio "Il ballo tondo", anche "La moto di Scanderbeg" ci racconta un mondo affascinante e sconosciuto, come quello delle comunità arbereshe della Calabria. Perché ritorni sempre a questo mondo?
Istintivamente direi perché è il mondo che conosco meglio, essendo il mio luogo d'origine. In realtà, forse ne ho bisogno perchè lo vedo come il naufrago vede la terraferma, un luogo dove mi illudo possano riordinarsi, trovare pace stavo per dire, i vari tasselli di un'identità frantumata. Comunque non è un mondo tutto roseo; è pieno di spine e di zone oscure, sconosciute anche a me. Per illuminarlo, molto spesso uso la distanza, altrimenti rischierei in ogni pagina di fare retorica, proporre un mondo esotico, con tutto il contorno di nostalgia lamentosa e stucchevole che ne deriverebbe. Mentre di fatto è un mondo, non dimentichiamolo, attraversato dal plurilinguismo e dal multiculturalismo, un microcosmo vitalissimo, che ha in sé, come tutti i luoghi autentici, i grandi temi della letteratura: l'amore, l'odio, la morte, il bene e il male, il mistero, la magia...
Che cosa ti affascina e quali sono i caratteri che ritieni più importanti di questa "tradizione" albanese nell'Italia del Sud?
Mi affascina il fatto che in questi paesi si continui a parlare l'albanese antico a distanza di oltre cinque secoli dalla loro fondazione e malgrado la scolarizzazione in italiano, l'emigrazione massiccia e l'imperversare dei mass media. Mi piacciono le rapsodie e i canti che ancora oggi, sia pure in maniera frammentaria, è possibile ascoltare nei nostri paesi. Nel passato le rapsodie sono state il mezzo espressivo attraverso il quale venivano evidenziati gli elementi più tradizionali di queste comunità, elementi però rintracciabili in tutti paesi del Mediterraneo: l'ospitalità, il vicinato inteso come luogo socializzante, la besa, cioè la parola data. E poi mi affascinano i miti, primo fra tutti quello di Scanderbeg, che accomuna gli arbereshe agli albanesi, ai kosovari e agli arvanitis della Grecia. Naturalmente tutto questo per uno scrittore è una fonte inesauribile di storie reali e fantastiche. E per giunta si tratta di storie "leggere" e veloci, che piacerebbero tanto a Calvino.
Le tue storie sono sempre corali: i protagonisti vivono nella loro individualità, ma hanno sempre un forte legame con la comunità cui appartengono. C'è un motivo preciso in questa scelta?
Il motivo fondamentale è che come scrittore sono attratto dalle storie multiprospettiche, dalla duttilità di scrittura, dalla varietà delle voci narranti.
Questo ovviamente mi complica il lavoro e ogni volta che comincio un nuovo romanzo sarei tentato di scrivere una storia lineare, con un'unica voce narrante.
Finora, invece, la coralità mi si è imposta come dato naturale, al punto che nella "Moto di Scanderbeg", tra le tante voci narranti, c'è persino un "noi narrante", i giovani del paese, che raccontano la storia di Giovanni dal loro punto di vista. Del resto la comunità d'origine dei protagonisti delle mie storie è così potente e prepotente che li plasma a sua immagine e somiglianza. Con questa comunità bisogna fare i conti continuamente, nel bene e nel male. Fuggire da lei è un tentativo di conquistarti, a fatica, la modernità. Ma prima o poi ci ritorni. Per ripartire.