IL Diario
14 marzo 2002
Avventura e gioia
in una felice prova narrativa
La
locanda racconta
di Massimo Onofri
Di
Carmine Abate si conoscono due notevoli romanzi, ne abbiamo già parlato su
queste colonne, Il ballo tondo (1991) e La moto di Scanderbeg (1999),
entrambi radicati nella vita d’una comunità calabrese arbëreshe, e cioè
italo-albanese.
Questi
dati di biografia e letteratura, dentro libri ricchi di innesti
antropologici, fanno di Abate uno dei pochissimi scrittori italiani
(l’unico?) apparentabile a tanti narratori di matrice etnica che, specie
nell’ambito di realtà post-coloniali, rappresentano il fatto veramente
nuovo nella storia del romanzo di questi ultimi decenni. Questa volta, però,
lo scrittore abbandona la consueta Hora e gli albanesi di Calabria per
spostarsi nella vicina Roccalba, un altro paese calabrese, certo, ma a forma
di ferro di cavallo, e adagiato «nella parte più stretta dello Stivale, su
una collina tra due mari», lo Ionio e il Tirreno. È qui che si svolge la
secolare vicenda del «Fondaco del Fico», una locanda tra Pizzo e Maida
d’importanza vitale per i viaggiatori, poi distrutta, in un giorno di
luglio del 1865, durante uno scontro a fuoco tra briganti e militi della
guardia nazionale. Occorre dirlo subito: quanto a magnetismo simbolico, il «Fondaco»
ha, in Tra due mari, la stessa forza d’attrazione della verghiana casa del
nespolo, se è vero che tutto il romanzo cresce nel miraggio della sua
ricostruzione.
In Tra due mari, insomma, viene a cadere il lato arbëreshe: resistono, però,
strategie e temi della narrativa di Abate, almeno così come l’avevamo
lasciata, allo snodo della Moto di Scanderbeg. E come nella Moto anche qui
acquista un’importanza decisiva il rapporto Calabria-Germania (figlio
d’un tedesco ed una calabrese è, infatti, il protagonista-narratore),
lungo il cui asse si svolgono alcune delle vicende che tramano il libro: e
siamo alla terza radice dello scrittore, oltre a quelle italiana e albanese.
Rimane poi quel modo di scendere e salire per i rami d’un albero
genealagico, che qui non s’arresta alle tre principali generazioni (il
nonno materno del protagonista, Giorgio Bellusci, e quello paterno, Hans
Heumann, tra i più grandi fotografi al mondo; il padre Klaus, frastornato e
compiacente, al perenne inseguimento dell’inafferabile genitore, e la madre
Rosanna, di struggente sensualità, «occhi di mediterranea rapinosa»;
ilprotagonista e la sua incantevole Martina), ma arriva a comprendere gli
antenati ottocenteschi del Bellusci, appunto i gestori del «Fondaco». Anche
in Tra due mari, poi, c’è un evento del passato che funge da nucleo
irradiante di tutta la vicenda e che guadagna quasi un valore archetipico, da
origine delle origini: se nella Moto, oltre allo Scanderbeg protagonista, ce
n’era uno più antico, l’eroe che guidò la comunità albanese contro gli
invasori turchi, qui troviamo il passaggio d’un insolito Alexandre Dumas al
«Fondaco», nel 1835, dove dimentica quel suo taccuino di viaggio che i
Bellusci, di generazione in generazione, custodiscono religiosamente.
Ma è quella singolare attitudine a sollevare i personaggi entro un cielo di
leggenda che garantisce la più vera continuità. Sentite qua. È Hans
Heumann che ricorda l’incontro con il suo grande amico Giorgio Bellusci: «Aveva
gli occhi di un marrone mai visto, un marrone bruciato dal sole. (...) In
quegli occhi c’era orgoglio tenerezza caparbietà passione fuoco sole e, in
fondo alle pupille, qualche rimasuglio di pioggia e di rancore, sul punto di
sprizzare fuori. Sì, lo so, ne parlo come un innamorato. E un po’ lo ero».
Il romanzo, pur spalancato sul futuro, non ha un lieto fine: ma non al punto
da imbrigliare lo straordinario ottimismo biologico che Abate sa tradurre in
avventura, espansione vitale e pura gioia di movimento: festa della
scrittura.
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