Incontriamo Carmine Abate nella sua casa in Trentino per parlare
della sua scrittura e dei personaggi del suo ultimo lavoro

di Stas' Gawronski

L’ultimo libro di Carmine Abate, “La festa del ritorno” (Mondadori) , è un romanzo che merita di essere letto. E’ la storia di un padre e di un figlio, e della vita sospesa di una famiglia che attende il ritorno dell’emigrante. Un intenso romanzo di formazione vestito dei colori, dei sapori, dei suoni e degli odori di un paese arberesh della Calabria.

Che ritorno è descritto nel tuo ultimo libro?

E’ un ritorno reale, che io ho vissuto mille volte nella mia vita. L’origine di questa storia è fortemente autobiografica. Il padre emigrato de “La festa del ritorno” è mio padre emigrato. Da bambino ho vissuto il ritorno di mio padre a casa come un evento straordinario; mi ricordo che i suoi ritorni mi riempivano di gioia, sentivo di avere finalmente un padre in carne ed ossa e non un padre di carta e matita, quello delle lettere che arrivavano continuamente a casa. E cambiavo radicalmente quando tornava mio padre. Diventavo sicuro di me accanto a questo padre che, in qualche modo, proteggeva la famiglia e che ti insegnava tante cose, piccole e belle, come per esempio giocare a carte oppure i nomi delle piante quando andavamo in campagna o a sparare con il fucile da caccia. Eppure sapevo dentro di me che prima o poi mio padre sarebbe ripartito. Mi ricordo, e me lo hanno confermato i miei parenti, che quando mio padre ripartiva diventavo feroce. Non lo lasciavo partire, mi aggrappavo alle sue gambe e mi dovevano prendere di forza perché non riuscivano a staccarmi da lui. Il ritorno di mio padre di allora fa il paio con i miei ritorni di oggi al mio paese d’origine, ritorni gioiosi, felici, in cui coinvolgo la famiglie e, da qualche anno, l’intera comunità perché con un gruppo di amici organizziamo ogni anno una “festa del ritorno”, nel mese di luglio o agosto, quando c’è il maggior numero di emigrati di ritorno dalla Germania. E, come nel libro, questa festa è un tentativo di dialogo con il paese, un dialogo tra chi resta e chi parte, una realtà che ho sempre sentito, fin dai tempi in cui tornava mio padre, perché la lontananza non ti fa toccare gli altri e, quindi, c’è un’esigenza forte di contatto da soddisfare. E’ una piccola festa, organizzata da tre amici, in cui facciamo spettacoli musicali, presentiamo libri (lo scorso anno abbiamo presentato il Meridiano di John Fante), ma anche tornei di calcio per ragazzi e per adulti. I miei figli che vengono da fuori, attraverso il calcio, riescono a entrare in contatto con gli altri, si integrano nel paese. Altrimenti non faremmo la vacanza dell’emigrato che rientra al paese, ma quella del turista. C’è un libro di un mio carissimo amico, Vito Teti, un socio-antropologo, intitolato “Il paese e l’ombra”, in cui si parla del paese e dell’ombra del paese che vive fuori: il ritorno rappresenta il momento in cui l’ombra si ricongiunge al corpo e il paese ridiventa vivo.

I tuoi libri contengono tracce di lingue diverse dall’italiano. L’arberesh, il “germanese”… Come vivi questa dimensione multilinguistica?

L’italiano è la lingua che mi aiuta a tenere una distanza dai fatti, spesso autobiografici, che racconto. La mia lingua d’origine è l’arberesh che sapevo parlare fino a sei anni, poi ho imparato l’italiano a scuola e l’ho imparato bene, diventando a mia volta insegnante di italiano. Ma non è la mia lingua e, quindi, mi consente di prendere una giusta distanza dalla materia che tratto perché io penso e sogno in arberesh. Anche quando nei miei sogni compaiono dei tedeschi, questi parlano in arberesh. E’ buffo, ma è inevitabile. L’arberesh è una lingua completamente diversa dall’italiano e lo sento. Il tempo infinitesimale in cui traduco la mia visione del mondo dall’arberesh all’italiano è uno scarto che fa da filtro all’esperienza. L’italiano è la lingua in cui scrivo, ma non è la “lingua del cuore”, e quindi mi ritrovo a narrare esperienze arberesh in italiano. In questo mio ultimo libro, il padre è un uomo che immagino parli in arberesh e, quindi, l’italiano che nel testo il padre utilizza è, in realtà, un lingua inventata che corrisponde grosso modo al ritmo dell’arberesh, ma meno al sentimento di quella lingua. Cerco di fare in modo che almeno la musicalità si avvicini a quella dell’arberesh. E’ inevitabile che in questa lingua inventata io inserisca termini di altre lingue che mi appartengono. Io amo la lingua italiana, non mi è estranea, anzi è la lingua che mi ha consentito di raccontare delle storie, storie che non avrei potuto raccontare in arberesh perché l’arberesh non me lo hanno mai insegnato e poi si tratta di una lingua che appartiene alla civiltà contadina e, quindi, ha un lessico ridotto rispetto all’italiano. Dentro di me, questo passaggio dall’arberesh all’italiano mi consente di evitare la retorica, la nostalgia scontata o la facile denuncia che trovo spesso in tante storie di emigrazione. L’emigrazione è un tema forte per chi lo ha vissuto e si rischia sempre di scadere nella retorica o in una denuncia didascalica.

Il personaggio di Spertina, la fedele cagna che accompagna i protagonisti del racconto, sembra essere un angelo custode, una presenza con un radicato senso di giustizia, ma anche testimone di una bontà che serve anche ad attenuare la negatività dell’uomo con i capelli brizzolati. Come è nato il personaggio di Spertina?

Spertina è un personaggio a cui tengo molto. A casa nostra abbiamo avuto sempre tanti “spertini” e “spertine”, cani maschi e femmine, e l’ultima purtroppo è morta da poco tempo. Lei è un po’ la sintesi di tutti questi cani che abbiamo avuto in famiglia. Alcuni episodi sono assolutamente reali, come l’episodio del ferimento di Spertina da parte di un cinghiale e anche l’intervento dell’uomo che l’ha ricucita salvandole la vita. In effetti, Spertina ha la sensibilità di una persona, è fortemente umana, sempre presente nei momenti cruciali e, come farebbe un angelo custode, previene, fiuta in anticipo le situazioni.

Si percepisce nel romanzo un grande rispetto per i personaggi e per la loro libertà. E’ un libro in cui emerge la dimensione umana del libero arbitrio, il lettore sente che i personaggi in ogni momento sono liberi di prendere qualsiasi decisione, fuori da qualsivoglia determinismo psicologico. E’ così?

Sì, in tutti i miei libri. I personaggi partono tutti quanti da una frase iniziale e poi diventano persone. Non posso ingabbiarli in percorsi precostituiti solo per creare dei facili colpi di scena o delle situazioni di lieto fine o moralistiche. Loro agiscono liberamente. D’altronde sono convinto che un lettore in un libro deve trovare delle persone e non dei personaggi. Per questo mi piace quando i lettori credono che le mie storie siano interamente autobiografiche quando, in verità, sono solo parzialmente autobiografiche. Io parto da una cornice autobiografica, come ad esempio i viaggi di mio padre, ma poi invento delle storie in cui agiscono e vivono delle persone. Non mi piace la “bravura” degli scrittori che dimostrano la loro abilità, ma la letteratura che trasmette l’emozione che prova lo scrittore nel raccontargli quella storia e questo può avvenire solo se la storia è vissuta autenticamente e in modo vero dallo scrittore.

Oltre a Elisa, personaggio già alle prese con le contraddizioni e la lotta della vita adulta, ci sono soprattutto i bambini, il protagonista del libro e la sorellina, quella che tu hai chiamato “la piccola”.

I bambini vivono questa storia guardando sempre verso il futuro, contenti di essere dei bambini che vivranno una giovinezza e tutta la vita davanti a loro. Io credo che questo libro, malgrado la sofferenza dell’addio e dello strappo continuo dal padre, ti lasci in bocca il sapore della felicità. E’ un libro sull’infanzia, pulita, bella, a contatto con la natura. E sia il ragazzino che “la piccola” sanno che stanno andando incontro alla vita intesa come una grande avventura, una bella avventura, non un dramma o qualcosa di cui avere paura. Non hanno paura del futuro.

Il personaggio dell’uomo brizzolato è anche fortemente umano, proprio per le sue luci e le sue ombre.

Ti confesso che ho avuto qualche difficoltà con questo personaggio. La sua storia ha avuto diverse versioni in corso d’opera. Volevo farne un personaggio ambiguo, misterioso, non troppo approfondito. Mentre scrivevo, a un certo punto, mi sono accorto che io stesso non ce l’avevo con l’uomo brizzolato – perché il mio è sempre un corpo a corpo con i miei personaggi che, a volte, sento più vivi dei vivi – e non riuscivo a odiarlo, malgrado nella storia avesse combinato qualcosa di grave. Questo personaggio è l’alter ego del padre, colui che sostituisce il padre del bambino nei momenti di assenza. Il padre gli insegna a vivere e lui gli insegna a nuotare.

Devo ammettere che, per un attimo, ho temuto che anche il bambino seguisse le orme di Elisa, ovvero si lasciasse irretire dall’uomo brizzolato…

La storia di Elisa ha preso questa piega, anche se io non lo volevo, è andata da sola in quella direzione. Era una necessità di Elisa, del suo desiderio di emancipazione e poi dell’istinto a non rimanere schiacciata da questo amore. Elisa è il personaggio più moderno del libro, non solo perché ha studiato, ma perché sfida le convenzioni e se ne vuole andare dal paese in cui vive, seguendo le radici, la presenza indicibile della madre francese che non ha mai conosciuto. Poi non sappiamo come andrà a finire la sua vita. D’altronde un romanzo è buono quando non chiude tutte le strade e lascia immaginare al lettore il futuro dei personaggi.

A proposito del tuo laboratorio di scrittura: come vivi il tuo rapporto con la scrittura? Ti fai aiutare da un editor?

Io soffro, mio caro, perché ogni volta temo di non essere più capace di scrivere. E mi meraviglio quando vedo l’opera conclusa. Impiego molto tempo per scrivere un libro. Anche per “La festa del ritorno”, tra la prima stesura e l’ultima bozza sono trascorsi due anni, ed è il libro che complessivamente mi ha fatto spendere meno tempo. Non so mai, per esempio, se la storia che scrivo viene vista dai miei primi lettori nel modo in cui la vedo io. E, quindi, la “prova” dei miei primi lettori - mia moglie, alcuni miei amici – è un momento di panico perché temo sempre che mi dicano: “Ma che vuoi dire? Non ci abbiamo capito nulla…”. Comunque, è un passaggio importante perché di solito ascolto molto il parere degli altri, in particolare di questi primi lettori, del mio agente, degli editor della casa editrice. E poi lavoro sul testo sulla base di queste critiche costruttive.
Un editor bravo ti fa vedere ciò che manca e ciò che è superfluo, anche se il critico più feroce sono io. La mia prima reazione a questo ultimo libro, dopo averlo scritto, è stata quella di desiderare di non pubblicarlo. Ma è stato un momento di “svuotamento” dovuto al distacco da una storia a cui ho voluto molto bene e che, con la pubblicazione del romanzo, sarebbe andata via da me.