Il Giornale di
Vicenza
Domenica 3 settembre
2000
Riproposto
il suo primo romanzo
I
mondi di Abate: calabrese albanese e trentino
di Roberto Cacciatori
Carmine Abate
è uno scrittore eccezionale. Non sto esagerando: uso l’aggettivo in senso
etimologico. Il suo lavoro fa eccezione, un’interessante eccezione, ai
filoni oggi dominanti nella narrativa italiana. Già la sua storia è tutta
particolare: nato a Carfizzi, un paesino calabrese di origine albanese, e
trapiantato da molti anni in Trentino, in lui si sommano tre culture:
albanese, italiana, tedesca (ha anche abitato in Germania).
Dall’intersezione di questi mondi, pur con la dominante di quello
calabro-albanese delle origini, sprizzano scintille che accendono di un
fascino speciale la sua opera, tradotta in Germania, Albania e Kosovo. La
pubblicazione lo scorso anno, presso Fazi, del romanzo “La moto di
Scanderbeg” lo fece conoscere a un pubblico più ampio e gli valse
l’ammirazione della critica, tanto che qualcuno parlò di lui come della
rivelazione dell’annata letteraria. Ora la risposta, sempre da parte di
Fazi, de “Il ballo tondo” (224 pagine, 22.000 lire), che è il suo primo
romanzo (già uscito da Marietti nel 1991), conferma quel giudizio: è una
delle cose più belle che ci sia capitato di leggere negli ultimi mesi. Vi
troviamo una narrazione corale ambientata nella Calabria albanese, anzi
arbereshe. Protagonista è una famiglia, gli Avati, e il punto di vista
privilegiato è quello del figlio Costantino. Ma attorno a questo microcosmo
familiare - fatto di abitudini inveterate, legami viscerali con il passato e
le leggende, e poi gli accadimenti di tutte le famiglie di questo mondo,
nascite, fidanzamenti, matrimoni, morti - ruota tutto il villaggio, Hora.
Non c’è una vicenda principale, ma piuttosto da parte dell’autore uno
sguardo appassionato su una realtà storico sociale che è la propria e che
diventa racconto forse autobiografico. Il patrimonio di tradizioni
leggendarie della comunità serve a interpretare il presente, è memoria viva
di un popolo con la sua storia a tratti epica. Hora stessa è stata fondata
cinquecento anni fa da profughi albanesi migrati per sfuggire all’invasione
delle loro terre da parte dei turchi. Un destino di migrazione e lontananza
che sembra ripetersi ciclicamente e che è tragico per la vita familiare e
sociale degli individui. “Perché se uno vive là, solo, senza affetti,
senza questi figli che sono il tuo tizzone acceso, senza la tua compagna che
ti consola, solo e lontano, un “Itaker” come tanti, senza una meta
precisa, senza sapere perché lo fai, perché ti sacrifichi come un mulo per
anni, allora è meglio che ti squarci la gola con una lametta, o ti butti giù
da un potente”.
Le pagine sono disseminate di miti, leggende, elementi folclori e la
narrazione conserva, come avviene in certe saghe narrative sudamericane, i
colori, i sapori, i profumi della natura e della terra, in un’avvolgente
dimensione di fisicità. Sembra di averli davanti i “piatti di vermicelli
che fumano come vulcani, e profumavano di basilico, di aglio, di pomodoro
fresco, di salsiccia, di formaggio pecorino”. Tutto il romanzo ha questi
umori mediterranei, senza però scadere mai nel selvaggio di stampo
decadente. C’è una necessità di fondo che gli impedisce di scivolare nel
manierismo. la scrittura, dotata di un ritmo da poema e a tratti quasi da
nenia o ballata popolare è modulata sui ritmi dell’oralità, inseguita
come spiega l’autore in una nota conclusiva - nell’eco delle rapsodie
recitate o cantate dalle vecchie della sua infanzia.
A qualcuno l’operazione di Abate potrà sembrare retrò: che senso ha, con
l’Europa unita della moneta unica e con la crescente omologazione,
economica e culturale insieme, che avanza su scala planetaria, andare a
rivangare il passato di una minuscola comunità del nostro Mezzogiorno? ma
proprio la globalizzazione provoca gli scrittori ad una sfida: quella di
riappropriarsi della loro e della nostra identità, raccontando storie anche
con un sapore locale, radicate in un preciso territorio geografico e
letterario. Il “ballo tondo” del titolo, quello delle feste nuziali,
diventa allora, in quanto “cerchio perfettamente tondo”, la metafora di
un mondo ideale che non esiste più (e forse non è mai esistito), ma la cui
utopia è necessaria per guardare avanti.
Tuttavia l’interesse del romanzo non è solo di tipo sociologico o
antropologico. C’è una capacità affabulatoria notevole, anche perché
Abate è uno dei pochi scrittori che hanno davvero qualcosa da raccontare.
Per noi che leggiamo, i suoi personaggi diventano come degli amici o dei
parenti, ci si ritrova assorbiti in un’atmosfera di famiglia, tanto che
quando il libro finisce spiace doversi separare da quel mondo che ci rimarrà
per sempre impresso nella memoria. Proprio come capita con i classici, e con
i migliori tra i contemporanei.
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