Il Messaggero
Da tempo ormai la narrativa italiana stagna in una condizione di povertà di ossigeno letterario. Ma le eccezioni non mancano e, tra queste, c’è sicuramente l’ultimo libro di Carmine Abate, La moto di Scanderbeg. Poco più che quarantenne, Abate è nato a Carfizzi, un paesino calabro popolato da una comunità albanese fuggita dalla sua terra intorno alla metà del Quattrocento. Per ragioni geografiche evidenti e per un senso molto forte della propria identità, questa comunità ha conservato nel tempo caratteristiche culturali e linguistiche (l’Arberesh) che la rendono una minoranza importante nel nostro paese. Abate, in più, è anche un uomo non ricco del nostro Sud e, come tale, si è trovato costretto a sperimentare la via dell’emigrazione alla ricerca di un lavoro: in Germania. Da lui, però, il distacco dalla terra d’origine e l’incontro con altre persone e con altre culture è stato vissuto come un’opportunità e non come una disgrazia. In questo contesto sono nati i suoi racconti. Tra ironia e rispetto non vittimista delle difficoltà vissute, i libri di Abate si misurano con il problema dell’incontro con l’altro: altre culture, altre lingue, altro cibo, altre abitudini, altre donne. Per lui la questione dell’identità non è occasione di rimpianto per le radici lontane, né costituisce una palude intimistica in cui affogare nella depressione e nel rancore per un mondo che non comprende e non sa capire. Carmine Abate sa usare il tema della memoria senza retorica. Le occasioni che la vita gli ha offerto sono vissute con lo spirito di chi pensa che la propria casa non si risolva solo in pochi metri quadrati. Abate non è un appartato, semplicemente vive una vita normale che gli offre a piene mani spunti per una letteratura che non è di intrattenimento, ma è capace di toccare momenti di grande poeticità come in quest’ultimo lavoro, senz’altro il più maturo.
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