Tutto Qui
27 aprile 2002

Abate e il nuovo "Grand Tour"

di Isabella Marchiolo


Le radici della terra natìa attecchiscono nel cuore e germogliano anche con le sementi della distanza. Carmine Abate aveva già iniziato il suo viaggio nella memoria ne "La moto di Scandenberg", dove quella per il passato era un'ossessione che scorreva nelle vene del protagonista con la stessa naturale irruenza del sangue. In "Tra due mari", l'ultimo romanzo dello scrittore di Carfizzi, il giovane Florian, metà calabrese e metà tedesco, tenta con tutte le sue forze di resistere al richiamo dell'afosa Roccalba, paese di origine della madre e soprattutto dell'impetuoso nonno Giorgio Bellusci. Nel suo grande sogno di ricostruire il Fondaco del Fico, la storica locanda visitata da Dumas e Jadin, il nipote viene coinvolto senza possibilità di fuga, e finisce per essere contagiato da una folle passione che non si arrende neppure davanti al delitto. Gli artigli della mafia gettano un'ombra scura su una Calabria altrimenti incantata, dove il sole e la brezza dei due mari, Jonio e Tirreno, tirano su intere generazioni di donne morbide e lussureggianti come la terra che le ha date alla luce, che allevano famiglie unite dall'amore e dalla testardaggine. Una favola mancata per la quale Abate scrive comunque un lieto fine. Giorgio Bellusci, orgoglioso discendente dell'omonimo "Focubellu", pagherà caro il suo coraggio, ma il Fondaco del Fico risorgerà dalle sue ceneri come simbolo, finalmente eterno, del Sud onesto e impavido. Un Meridione che, nelle righe di Abate, resta sospeso tra sogno e realtà, l'uno appena palpabile nei superbi panorami del secondo Grand Tour calabrese compiuto, sulle orme di Norman Douglas e della coppia Dumas-Jadin, da Bellusci e il suo amico Hans Heumann, e l'altra respirata negli odori acri e sensuali della terra e dei corpi degli amanti. Lo scrittore calabrese attinge a piene mani nei sentimenti più autentici della vita, dall'amore filiale, alla passione fisica, all'amicizia, e si concede il gusto di colorarlo con un'ironia tutta meridionale. E quando si giunge all'epilogo, che in realtà il lettore ha già indovinato da tempo, arriva inatteso anche il colpo di scena, che, al fuoco sacro che arde nelle radici, aggiunge quello per la letteratura. Da Dumas ai giorni nostri, Abate traccia un nuovo viaggio nella geografia dell'anima del profondo Sud d'Italia, e lancia un malinconico monito contro chi continua a macchiare con il sangue il verde del fico dell'antico Fondaco che, "capatosta" come tutte le creature, umane e vegetali, della Calabria, continua a farsi beffe, con il suo colore acerbo, dei tranquilli ruderi della storia.