La Gazzetta del
Sud
Martedì 8
giugno 1999
Libri
Carmine Abate: La moto di Scandberg
Dal grumo dei
ricordi il passato catarroso
di Giuseppe Amoroso
Si comincia con Giovanni Alessi che tornato
dalla Germania, come in tante altre estati, nel suo paese di Hora, in
Calabria, per trovare la famiglia, scava nel “grumo” dei ricordi celati
in fondo alle pupille nere, raccontando storie coinvolgenti a un gruppo di
amici curiosi. Da un episodio descrittivo, oscillante tra il passato e
presente, Carmine Abate apre il suo romanzo “La moto di Scanderbeg” alla
ventata sibilante di una scrittura che non si ferma a definire semplicemente
le azioni, a seguirle nei loro viaggi sussultanti, irregolari, ma cerca
soprattutto di sfruttare la vitalità più esplosiva e indomabile delle
immagini, quell’energia stordita che può portare l’intelligenza delle
cose un passo più in là del loro ambito visibile, sfruttando al massimo la
sorpresa di un assestamento anomalo, gli aloni e i margini del volo più
esposto della frase.
Non ha bisogno di enormi slittamenti di campo, Abate; né fora la resistenza
immediata dei significati più comuni, né opera lo sfilacciamento della
logica. Il procedere dello stile è slanciato, nonostante l’obiettivo
prefisso di una sanguigna realtà frantumata e occhieggiante un po’
ovunque. Mette insieme il bersaglio e lo sguardo che lo punta; l’oggetto e
l’emozione che lo avvolge. La perturbazione delle cose non si arroventa più
di tanto; però è subito manifesta nel suo scatto, ha un modo attento di
conoscere, in cui si agitano molti spunti. Anche se vuol narrare per spiegare
e documentare un fenomeno, lo scrittore va spesso alla ricerca
dell’ellissi, dell’obliquità, dell’angolo che misura la distanza dal
reale senza mai, di quel reale, smarrire il tenace legame, anche certa opacità
pesante e combattiva.
Mutano, rispetto a una visualizzazione di tipo tradizionale, la stabilità
del mondo esterno, la veicolazione dei pensieri e forme della natura che qui
entrano come piccoli vortici, nello scatto di un dinamismo che sembra celare
un soffio di vita umana. L’ “afa” resta “bloccata” tra i rami
contorti, “tremola” infilzata dalle larghe foglie della porta; le parole
vanno a sbattere “contro la porta chiusa” e cadono per terra “stordite,
una per volta”, occhiate pungenti “sciamano nell’afa”; campanili
aguzzi sono “infilzati nel cielo bianco sporco””; le parole “hanno un
senso se sono come i cubetti di porfido”, posti l’uno accanto all’altro
per il risultato di “un bel parcheggio, con disegni precisi, che serve a
tutti”. E infine, la bella idea di “infilzare il dove”.
Piovono sul racconto i racconti di varie voci e sono, pur nella diversità
dei timbri e della musica del lessico, la sola voce di una storia che parte
da lontano, dalle occupazioni dei latifondi e dalle lotte contadine in un Sud
povero e disperato nell’immediato dopoguerra. Dalle “fiamme” di quei
giorni esce un “fantasma” dagli occhi pungenti, coraggioso e ribelle,
chiamato Scanderbeg perché, al pari del mitico eroe della resistenza
albanese contro i turchi, odia le ingiustizie, è forte, imprevedibile e ,
forse ha attraversato i secoli tornando tra il suo popolo fuggito dalla
patria. Ora, in questa costa meridionale d’Italia, vicino alla nobile
Crotone, è di nuovo in guerra a difendere il proprio diritto alla
sopravvivenza. Scanderbeg , il padre di Giovanni, sempre sulla sua Guzzi
Dondolino, vuol vedere il “ mondo capovolto” e ha accanto la moglie Lidia
dagli “occhi di sirena”. Temerario, con la “testa piena di grilli”,
generoso e anche ingenuo, muore drammaticamente per una scommessa ma continua
a vivere nei racconti di Lidia e nell’amore del figlio.
Simile a un ferro di cavallo su un cocuzzolo, Hora soffre nella canicola, ma
anche si rabbuia sotto il cielo colmo di nuvoloni neri “come un lutto” e
di fronte a un mare pari a un “vecchio che si lamenta per un dolore
insopportabile”. Da lì, da quella terra di sofferenza parte Giovanni verso
un orizzonte grande, lasciando alle spalle quello che Claudia, la bellissima
ragazza da lui amata, chiama “passato catarroso”, studi incompiuti, vari
lavori e vari amori volatili e sempre quello indistruttibile per Claudia. Ma
pure questo è un legame che si incrina, a Colonia, dove Giovanni,
giornalista per Radio Italia, passeggia, “privo di gravità”, per
malinconiche strade.
Ricorda e scrive, Giovanni, per riavvicinarsi a sé stesso e alla sua terra;
ritrova nella memoria storie antiche, l’immagine del padre trasformato in
un bellissimo uccello, libero con il suo canto nel cielo; e, ancora, rievoca
i ritorni a Hora, le figure di umili e potenti, come il ricco Nico Morello,
“padrone del cielo”, e in ogni momento, gli occhi di Scanderbeg, raggi di
luce che arrivano ovunque. Si va da scene corali alla osservazione di una
formica smarrita su un mattone di cotto, in questo romanzo che sa filtrare
scottanti problemi sociali attraverso una vena lirica, cantabile, discreta, e
risentita ma non abbandonata lirica, appunto, e non nostalgica. un libro
pieno di cose quotidiane eppur capace di sfiorare il vischioso umore della
cronaca ribollente, avvampata di impeti civili, di proclami e di sdegno, non
cedendo al pezzo di pura denuncia.
Trova piuttosto l’incontaminata bellezza di un paesaggio, il tremito fugace
di un sentimento e il pezzo di colore e l’excursus (l’uccisione di Mastro
Scipione; la vita in Germania di Mario Schirò; la pagina di uno studioso
albanese nel sogno del “vero” Scanderbeg) che non fanno deviare il filo
narrativo, bensì riescono a portare nuova materia alla costruzione di un
mondo remoto, rurale, da cui, tra i tanti visi, emerge quello del bambino
dagli occhi di calamita, con la sua profezia di morte, oppure giunge la
folata irreale del silenzio. E canzoni si levano e teschi spuntano dai
sotterranei dell’antica chiesa di Santa Veneranda.
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