Migrazioni e partenze nel romanzo
"Il mosaico del tempo grande" di Carmine Abate
di Michele Gangale
L'espressione “Moti i
madh” (Tempo grande) conosciuta tra le comunità arberische viene
adoperata per indicare eventi suggestivi e lontani, raccolti e
rielaborati nelle leggende e nelle rapsodie, che narrano vicende
eroiche e catastrofi, legate alla invasione turca dell'Albania nel
XV secolo, la fuga di alcune popolazioni dai territori dell'Albania
meridionale e della Morea in Grecia, in seguito alla disfatta e alla
caduta di Costantinopoli, riferimento forte della fede cristiano
ortodossa per quelle popolazioni, raccontano la traversata per mare
per raggiungere le regioni rivierasche dell'Italia meridionale,
dove, dopo una fase di grande precarietà e di nomadismo, rifondano
proprie dimore, o dove ripopolano paesi svuotati dalla peste o dalla
fame. L'approdo in Calabria era reso possibile sia perché le regioni
rivierasche italiane erano vicine alle sponde albanesi e greche, sia
perché buoni erano i rapporti tra principi albanesi e aragonesi che
governavano l'Italia meridionale. Non importa quando succedono i fatti, il tempo è grande se ti lascia una traccia dentro. Per esempio, una fuga senza meta, l'ombra di vento che ti insegue ovunque, oppure uno sguardo innamorato e il sapore della liquirizia, la felicità che appena la sfiori si allontana di un passo come un orizzonte dispettoso. Ecco: queste tracce, dobbiamo cercare e seguire. Queste braci vive, in cerchio, sotto una montagna di cenere. Per andare dove, amici, non lo sa nessuno. Tu parti, questo sai, come è partito Jani Tista Damis, ignaro della meta più profonda, convinto di ritornare quando vuole. Invece si perde per sempre, e con lui il suo ricordo. Però lascia una traccia dentro Antonio Damis, un grumo duro di cocciutaggine, il sogno del ritorno. (p.116) Il “tempo grande” è
tempo interiore, è il tempo che si misura con lo sguardo profondo
dell'anima, con uno sguardo e un approccio nuovi, il tempo che
lascia segni, tracce, dai contorni forse labili e imprecisi, ma che
mettono in moto pulsioni psichiche, risvegliano un bisogno di
significati, per la propria vita e per la vita comunitaria. E' il
tempo della sosta e della contaminazione d'amore, che Gojari e Laura
conoscono, allorchè contemplano il mosaico e si stupiscono in un
“abbraccio leggero”, davanti al mosaico. E quando finalmente conobbe quella storia,, abbracciò l'uomo che gliel'aveva raccontata e gli fu grato per tutta la vita. (p.116) Gratitudine e
affetto, dunque per chi è portatore di memoria, per chi alimenta
l'incontro, la conversazione affettuosa, l'invito alla sosta.
L'emozione è legata alla rievocazione e al dono di un frammento,
come dire che talvolta chi restituisce un frammento di memoria,
restituisce la vita. 2 - Il mosaico e la scrittura Le storie le abbiamo dentro e attorno a noi,io non faccio altro che raccoglierle come frutti da un albero e poi le fisso nel mosaico perchè durino il più a lungo possibile: questo hanno di buono i mosaici: che durano più degli affreschi, più dei quadri e delle parole, più di noi. (p. 193) Tali affermazioni
riconducono sul terreno della poetica di Abate, che possiamo
ricostruire sia attraverso i romanzi e sia attraverso le parole
dello scrittore affidate alle interviste, alle conversazioni. Alcuni
punti in particolare si possono richiamare: Laura e Gojari stavano davanti al mosaico immobili,in un abbraccio leggero” (p.58) Un'emozione legata agli sguardi, al silenzio, quasi una contaminazione d'amore. Ho alzato lo sguardo verso Laura e l'ho vista sullo sfondo del grande mosaico. Stava ammirando l'uomo in primo piano, raffigurato di profilo, alto e imponente, con gli occhi carichi di una nostalgia sconfinata che guardavano lontano, al di là del mare nostro. (p.59) L'uomo in primo piano
è Jani Tista. Lo sguardo di Jani Tista, contemplato sul mosaico alla
luce del suo doloroso percorso esistenziale, e della tragica fine
che segna il suo rientro in Albania, e che il lettore conosce già,
esprime dolore e stupore;esprime nostalgia della vita e della luce,
come lo sguardo delle ombre nell'aldilà omerico esprimevano
nostalgia del giorno. 3 - Un romanzo di partenze L'evento lontano
della fuga dei profughi dalla prima Hora, nel XV secolo, rappresenta
il punto di partenza intorno a cui si sviluppano diverse trame
narrative. Migrazioni e partenze più volte intervengono nello
sviluppo delle vicende narrate. Si tratta di temi costanti e
fondativi nella narrativa di Abate, temi che di volta in volta
assumono nuovi approfondimenti e nuove sottolineature. Un tema a
lungo meditato quello della partenza e della fuga. Esso ha molto a
che fare con la storia sociale di Hora (ovvero di Carfizzi, il paese
nativo dello scrittore), segnata dalle migrazioni, e con la storia
sociale di una terra in viaggio quale è la Calabria, e con i
percorsi biografici dello scrittore, che ha conosciuto partenze ed
ha visto dimore nuove. Un tema costante, che nasce da una
riflessione maturata a lungo, scaturisce da un grumo psichico
profondo. Destini e condizioni esistenziali dei migranti trovano
spesso tratti comuni nella ricerca narrativa, consentono
accostamenti, nei diversi contesti narrativi e nella riflessione
dello scrittore. Di seguito qualche richiamo e qualche
sottolineatura, per mostrare la rilevanza che viene ad assumere
questo grande tema. L'accoglienza da parte della gente era stata calorosa, all'inizio; poi era diventata tiepida e infine, esaurite le curiosità reciproche, sospettosa. Di sera gli albanesi si aggiravano in piazza con lo sguardo spaesato che ben conoscevano molte persone di hora emigrate all'estero; di giorno lavoravano saltuariamente in campagna per pochi soldi o andavano a fare i manovali in nero nei cantieri edili della Marina o stavano chiusi in casa a guardare la televisione (p.61). In tale quadro, sul piano narrativo così come sul piano storico, le spinte forti verso il cambiamento e verso la speranza si intrecciano con l'avvertimento di una ingiustizia patita, allorchè si è costretti alla fuga: l'importante è ciò che uno sente dentro di sé guardando queste figure vive, palpitanti, in viaggio nel silenzio. A me sembra di toccare con mano l'ingiustizia della fuga dal proprio paese e il male che fa la partenza forzata (p. 216). Si rivela
interessante a tal proposito richiamare alcuni passaggi di una
intervista, che esprimono riflessioni non comuni e rendono quanto
mai mosso un discorso sulle migrazioni. Gojari raccontava del vecchio padre che abitava da solo a Fshatirì: aveva ottantadue anni, il padre, ma ancora lavorava in campagna e aveva una memoria formidabile. Purtroppo non si vedevano da un anno e mezzo, e questo era il cruccio di Gojari, il vero dolore della sua lontananza: che il padre potesse avere bisogno di lui o morisse senza averlo accanto (p. 144). E per contro una immagine accompagna struggente l'animo di Gojari, una immagine carica sicuramente di grumi psichici, di echi virgiliani e verghiani, di una memoria che sa attingere e rielaborare sul terreno narrativo i contenuti sociali e antropologici della profonda Calabria: E ha raccontato la storia di un uomo che, per tutto il viaggio dalla prima alla seconda Hora, aveva portato sulle spalle il vecchio padre ammalato per non lasciarlo morire da solo (p. 144). E i versi di Gerolamo de Rada riportati in epigrafe al Mosaico riconducono anch'essi al destino di fatica e di spaesamento che la partenza può comportare: Ora te ne vai e il
cavallo alato
I nostri figli e nipoti hanno bisogno di certezze e di sogni, di sentire i loro piedi su una terra amica Ma non tutti riescono a ritrovarsi nel nuovo contesto, così si esprime infatti Jani Tista: avrei fatto meglio a non partire, qui ho passato una vita senza sale, di notte sento il dolore della partenza (p.79). Così Jani Tista, dietro la spinta di impulsi profondi e misteriosi, matura la nuova partenza, la necessità del rientro in Albania: voglio vedere il lago pieno di ninfee almeno una volta nella mia vita (p.80). Voglio dare una mano ai nostri fratelli oppressi (p.80). Devo ricongiungermi con la mia ombra, che è là e mi aspetta da quando sono stato generato (p.80). La comunità, come avveniva nelle società contadine fino a pochi decenni fa, avverte la partenza come un evento sociale difficile e carico di interrogativi, e pertanto accompagna i due, Liveta e Jani Tista, fin dove il paese finisce, per l'ultimo commiato, come in un rito antico: Jani Tista e Liveta vengono accompagnati fino al bivio del Padreterno dal paese intero o quasi...Nessuno parla. Si sente solo il tramestio dei passi sulla terra battuta e la voce rauca del vento che alza mulinelli di polvere e s'intrufola carica di granellini tra la folla, costringendola a ripararsi gli occhi con le mani per non lacrimare. Insomma sembra un funerale, ma al posto della bara si stanno accompagnando due uomini vivi, al momento, addirittura allegri, col sorriso spiritato dei fanatici nello sguardo (p.82). Venti giorni per raggiungere l'altra sponda adriatica, in quel lontano scorcio del XV secolo. E cosa trovano i due, una volta giunti nel territorio di partenza, in Albania: Più tardi risalgono
la collina e vedono il lago: è pieno di ninfee fiorite, di anatre
che si tuffano instancabili con la testa nell'acqua celeste. Le partenze così come
i rientri rappresentano un nodo, si configurano, si diceva, come
eventi problematici, come ricerca, come sfida; possono comportare
conferma o smentita delle aspettative, possono significare
reintegrazione o perdizione nello spazio e nel tempo. I due cercano
Hora, ma Hora è distrutta. Gli eventi hanno determinato la
catastrofe, il tempo trascorso ha segnato il mutamento del
territorio, del destino. I vivi sopravvissuti sono andati via da
quei luoghi ora devastati, hanno inseguito un sogno di rifondazione
del paese nel territorio albanese vicino, si sono dovuti
allontanare, come anni prima altri profughi si erano allontanati ed
avevano attraversato il mare per approdare in Calabria, dove avevano
ricostruito Hora sul Timparello, una collina percorsa dai venti che
soffiano da ogni direzione. Le pagine del romanzo lasciano pensare
che presenze e tracce di Hora sono dappertutto. E' questo il destino
delle “terre in viaggio” che sembrano, in certo modo, prolungare
altrove tracce della loro vita. Vogliono sapere dei parenti fuggiti, degli amici della Hora lontana ( p.119). Pur rimasti in
Albania, essi hanno accompagnato col pensiero e con le parole del
ricordo e della conversazione il viaggio per nave dei profughi verso
le coste calabresi. Nessuno dei
familiari mostra di credere che Jani Tista sia morto. E ogni giorno
a tavola tengono un posto libero per lui e aspettano che bussi alla
porta e si sieda con la sua famiglia a mangiare (p. 121) (Jani Tista) vaga poverino vaga di qua e di là come un batuffolo di stoppa nel vento, e aspetta la sepoltura per porre fine alla propria sofferenza. Ogni tanto si presenta a hora trasformato in una ghiandaia disperata o in una lucertola senza coda o in un garofano rosso sangue o in un refolo di vento dalla voce roca. Nessuno lo riconosce, come potrebbero? E poi non vogliono. Per loro lui resta vivo anche quando sono trascorsi nove anni e nove giorni e ormai la moglie è per tutti una povera vedova bianca, incurvata dall'attesa dolorosa. Anche adesso che il figlio Kolantoni è diventato il nuovo papas... (p. 122). Sono pagine che
rivelano una interiorizzazione profonda da parte dell'autore della
cultura folklorica calabrese legata alla presenza e al ritorno dei
morti, una cultura ancora viva negli anni sessanta e settanta. 4 - Ancora partenze, oggi Il mito del “tempo grande” trova oggi un tessitore e un cercatore di memorie in Antonio Damis, oggi, ovvero verso la metà degli anni novanta del secolo appena trascorso; in un quadro sociale e politico dell'Albania ancora “caotico e pericoloso”, Antonio Damis si reca nel paese delle aquile per incontrare il padre di Gojari, che abita in un paese del sud di nome Fshatirì (Cittanuova) al confine con la Grecia, per farsi raccontare la storia di Jani Tista e di Liveta, che il padre di Gojari ha raccolto dalla generazione precedente. Poi parte, accompagnato dal padre di Gojari, per cercare la prima Hora. Ecco lo scenario che si trova davanti: Non era tanto l'arretratezza del paese, simile alla nostra hora degli anni cinquanta, con i contadini che andavano in campagna a dorso di mulo e i bambini che giocavano a ika. E non era la povertà che si respirava in ogni angolo, il centro storico abbandonato ai topi, le case dall'intonaco scrostato, spesso senza vetri alle finestre, i giovani tutti via, peggio che a Hora.. Non era neanche la frustrazione di fronte al lago di ninfee diventato uno stagno pieno di rane magre e gracchianti. Era l'indifferenza della gente, che pure gli sorrideva, che pure era ospitale, ma che diceva “gjaku yne i shprishur” con un sguardo distaccato, senza un barlume di speranza (pp.213-214). Insomma per dirla con
le parole che abbiamo già trovato nel romanzo, le persone non
avvertivano tracce vive dentro, non avvertivano i segni di un tempo
grande da rievocare, da ricomporre, nella prospettiva del mosaico. ... infine lo portò in giro per i ruderi della prima hora e solo lì, tra i resti dei muri appena visibili della chiesa, quella stessa in cui era stato seppellito Jani Tista, Antonio Damis riconobbe l'ombra del tempo grande che si allungava sulle pietre della strada infestata di erbacce e pareva inseguirlo, spinta dal vento ( p.214). Sì, le tracce e i
ruderi narrano storie, se abbiamo la propensione ad ascoltare. Il
contesto narrativo che conclude il romanzo sembra rinnovare,
implicitamente, l'invito a considerare quei ruderi, a raccogliere
quei frammenti di memoria, a ricomporli, a dargli contorni e durata
dentro di noi. |