Un romanzo ambientato
nella comunità arbëreshe
tra gli albanesi d’Italia.
La loro lingua è un mistero:
come ha fatto a preservarsi
intatta lungo cinque secoli?
«Ammeldare»: cosa significa? Iscriversi all’anagrafe, dal
tedesco «anmelden». E «vascmascina»? È un po’ più facile, è la macchina che fa
il bucato, la lavatrice. Ecco due vocaboli della lingua dei «germanesi», come,
negli anni Cinquanta e Sessanta del grande esodo, con un altro neologismo si
ribattezzarono gli italiani emigrati in Germania. Carmine Abate ci fa notare
come entrambe le parole che abbiamo scritto si riferiscano a realtà - un
ufficio, un elettrodomestico - di cui i nostri connazionali facevano lì in
Germania la prima esperienza e per le quali, dunque, coniavano dei nomi in
quella loro nuova lingua al confine tra italiano e tedesco.
L’emigrazione come strappo, dolore, ingiustizia, ma anche, appunto, come
viaggio, esperienza, conoscenza, come «vita», è il grande tema narrativo di
Abate. Un soggetto al centro anche della Festa del ritorno, lo struggente e
gioioso romanzo (insignito nel 2004 del Premio Napoli, del Selezione Campiello e
del Corrado Alvaro), in edicola da domani col nostro quotidiano. Natale, col
grande fuoco al quale ci si scalda insieme in piazza, è la festa che riunisce
ogni anno un padre e un figlio: l’adulto è emigrato in Francia dove fa il
minatore e l’operaio, il bambino cresce nel paese d’origine, in Calabria,
soffrendo per la nostalgia del genitore ma anche scoprendo con felicità e
vitalità il mondo. Di Natale in Natale, nei racconti che i due si scambiano
davanti alle fiamme, scopriamo cosa significhi fare l’emigrante, sappiamo d’un
primo matrimonio dell’uomo e d’una felicità perduta, assaporiamo la letizia con
cui il bambino gli sta vicino e il rabbioso dolore che prova quando riparte.
Scrittore cinquantunenne, nato in Calabria a Carfizzi, una comunità arbëreshe
erede dell’antica emigrazione di albanesi nel nostro Sud, vissuto in parte in
Germania, tra Amburgo e Ludwigsahen, Carmine Abate ha all’attivo quattro romanzi
e un libro di racconti. E, benché appartato rispetto alle capitali dell’editoria
- vive in Trentino dove insegna italiano in una scuola media - è tradotto in
molti paesi d’Europa, grazie all’originale intreccio culturale e linguistico
delle sue narrazioni: nei suoi romanzi irrompe, crepitante e bella come un
graffito, quella lingua, l’arbëreshe appunto, misteriosamente sopravvissuta
nelle enclaves del nostro Meridione durante cinque secoli, e i protagonisti non
hanno mai una patria sola, coltivano sentimenti e idee maturati un po’ qua, in
Italia, un po’ là, in Germania, in Francia, le mete della nostra emigrazione.
Lei, Abate, fa romanzo di una realtà che ha vissuto in prima persona. Quando
e perché è emigrato in Germania?
«La mia famiglia viveva lì da un pezzo, dopo una prima tappa in Francia. Io
studiavo in Italia e ho raggiunto mio padre, mia madre e mia sorella la prima
volta nel ’71, avevo sedici anni. Da allora, fino alla laurea, ogni estate vi ho
trascorso quattro mesi, da giugno a settembre, a lavorare. Il primo impatto non
fu tanto con la realtà tedesca, ma con quella germanese: con quelle figure
ibride, gli emigrati, che non si sentivano più solo italiani né del tutto
tedeschi. E lì, a 16 anni, ho cominciato a scrivere, quando ho avuto coscienza
dell’ingiustizia della costrizione ad abbandonare il proprio paese. In Italia,
proprio come Marco, il bambino protagonista della Festa del ritorno, vivevo una
sorta di emigrazione alla rovescia: c’era un orco - i cantieri stradali di
Amburgo - che mi prendeva mio padre undici mesi l’anno. Appartengo alla
generazione del grande esodo, i nostri padri erano tutti all’estero. Noi figli
dei germanesi sapevamo su Amburgo e Ludwigsahen, la città della Basf,
l’industria chimica, molto più dei nostri maestri».
Da bambino, su questa figura di padre lontano, avrà fantasticato. Vederlo nel
suo humus di emigrato che effetto le fece?
«Noi bambini i nostri genitori li mitizzavamo, io lo pensavo come “lo zio di
Pavese col cappello a larghe tese che parlava dei mari del Sud”... Da piccolo
immaginavo che la Basf, la “anilin und soda fabrik”, in germanese ribattezzata
l’”anellino”, fosse uno stabilimento da cui uscivano piccoli gioielli. Invece lì
ho lavorato con loro in fabbrica e in cantiere e visto le baracche in cui
vivevano».
Eppure il suo romanzo è una storia tutt’altro che cupa. Come s’accompagna la
consapevolezza di un’ingiustizia con questo sentimento - che lo innerva - di
felicità del vivere?
«Nei miei primi racconti esprimevo solo rabbia. Vedevo solo una parola-chiave
degli emigrati, “sacrificio”. Poi, vivendo l’esperienza, mi sono liberato di
molti cliché. Si dice per esempio che gli emigrati sono sradicati, no, hanno più
radici, più mondi, più lingue. L’emigrazione è un’esperienza complessa e
ricchissima, non puoi costringerla agli stereotipi. Che ci sono ancora, basta
guardare come oggi noi trattiamo gli immigrati. Da anni, senza dimenticare
l’origine, quella ferita che deriva dalla costrizione a lasciare il proprio
paese, io cerco di andare oltre ciò che raccontano in genere i romanzi su questo
tema, di riferirne il positivo, l’emancipazione. E poi Marco, il piccolo
protagonista, è un bambino vero, dunque è “felice”: sente davanti a sé la
bellezza della vita, ha nostalgia del padre ma abita in mezzo a una natura
incontaminata. Come facevo io, fa scorribande col suo cane, bagni con gli amici
nelle piscine naturali, affronta i piccoli pericoli che per la crescita di un
bambino sono fondamentali».
Il padre, a sua volta, all’estero si emancipa. Per esempio, meridionale, vive un
primo amore con una ragazza, in Francia, libero anche sessualmente.
«Sì, il nodo è questo: i miei emigrati arbëresh, calabresi sono personaggi
normali che vivono delle storie. Semplicemente, vivono. Il mio personaggio di se
stesso dice “Non sono uno che spacca in due il fiammifero”. Vuol dire che è
all’estero per lavorare, ma non è lì solo per risparmiare per il dopo. A me
piacciono i romanzi avvincenti. Poi il lettore potrà risalire al problema
sociale. I miei maestri di narrazione sono stati i contadini e gli artigiani del
mio paese, che sapevano raccontare come i cantastorie pre-omerici. Con
musicalità e scelta precisa delle parole. E, come i grandi narratori, fermandosi
sul più bello».
I suoi personaggi viaggiando cambiano. Ma i loro paesi d’origine cambiano
anch’essi o restano identici a se stessi?
«No, non evolvono a tutti i livelli, e questo è il problema. Carfizzi è rimasta
uguale sul piano economico, con meno abitanti e più case. Ora nascono uno o due
bambini l’anno. Da duemila abitanti si è arrivati a ottocento, ma le case sono
cresciute a quattrocentocinquanta. Perché gli emigranti hanno mandato le
rimesse, però la classe politica locale non ha dato input, progetti, idee, e
loro da soli non potevano fare il miracolo: i soldi sono andati in appartamenti
a tre piani, per sé e per i figli. Nessuno ha cercato, né cerca oggi, di mettere
a frutto quelle loro capacità acquisite all’estero: sono persone partite
contadine e diventate dirigenti sindacali, tecnici, responsabili della sicurezza
negli aeroporti, come alcuni miei amici».
La comunità calabro-albanese da cui lei proviene ha un paio di
caratteristiche di rilievo: la lingua, questo arbëreshe ai nostri occhi
misterioso e bellissimo...
«Che io riproduco a modo mio, secondo il suono. Il segreto della nostra lingua è
come essa sia riuscita a preservarsi nonostante l’emigrazione, la
scolarizzazione e l’avvento della tv. Io ho un’idea: la comunità arbëreshe è
rimasta intatta perchè non si è mai chiusa. Fin dal ’500 sono certificati i
matrimoni misti. È il contatto con gli altri che ti fa rimanere te stesso».
Altro tratto, l’impermeabilità alla ’ndrangheta. Come è avvenuto il miracolo?
«Forse perché, piuttosto di farsi affiliare, sono emigrati».
Quanto va avvenendo tra i ragazzi di Locri oggi la fa sperare?
«Sì. La mafia è anche un atteggiamento, oltre a un comportamento. Ce ne possiamo
liberare. I mafiosi sono 5.000 persone su tutta la popolazione della Calabria. E
la soluzione politica sarebbe guardare alla Calabria come a una regione
normale».
Lei vive in Trentino e ha una sorella «germanese» vera, ad Amburgo. Che
rapporti intrattiene oggi col suo paese, Carfizzi?
«Di Carfizzi ce ne sono due: quella che sta lì e i suoi quattrocentocinquanta
figli che stanno all’estero. In Calabria vivono di nuovo, ora, i miei genitori.
Io ci torno tutte le estati e cerco di starci davvero. Dal 1994 abbiamo
inventato un’attività estiva di spettacoli, cultura, tornei di calcio: è una
festa del ritorno lunga una stagione che riunisce le due Carfizzi, quella in
Calabria e quella che vive nel mondo».