Il ritorno del padre "prodigo"
Una storia familiare di Carmine Abate narrata con poesia e con una lingua viva e contaminata
di Andrea Di Consoli
"La festa del ritorno" (Oscar Mondadori, 161
pagine, 7,80 euro) di Carmine Abate, da martedì in libreria, è il libro più
intenso dello scrittore calabrese di cultura arbereshe (autore, tra l'altro, de
"La moto di Scanderbeg" e "Tra due mari"). Un romanzo
poetico, struggente e narrativamente ammaliante.
Marco è un bambino di Hora (il paese immaginario in cui Abate ambienta i suoi
romanzi) che cresce seguendo gli esempi e il carisma di un padre rassicurante e
bonario. Purtroppo, come capita spesso al Sud, questo padre manca per lunghi
mesi, perché è emigrato in Francia. Nonostante tutto, Marco tiene ben a mente
la figura paterna, con la quale dialoga durante le lunghe assenze. Poi, quando
il padre ritorna, lo rispetta come un patriarca saggio, seguendolo nelle lunghe
passeggiate nei boschi e rabbuiandosi quando all'improvviso riparte per la
Francia, senza dirgli niente, la mattina presto.
Marco ha una sorellastra, Elisa (nacque in Francia, figlia della prima moglie
del padre, prematuramente morta), la quale ha un "amante", un brutto
ceffo con i capelli brizzolati, uno che tutti chiamano "il vecchio",
anche se è più giovane di quel che sembra. Elisa studia all'Università di
Cosenza. E' una ragazza misteriosa e dolce, introversa come tutte le persone che
custodiscono un segreto.
Quando il padre torna, Marco ascolta in religioso silenzio la sua storia di
emigrante: il lavoro in miniera, le umiliazioni delle visite mediche, il
desiderio di lavorare all'aria aperta, sui cantieri. Un giorno vanno a caccia e,
quando il padre intravede un cinghiale con i suoi cuccioli, prende la mira e fa
per sparare. Marco è deluso, vorrebbe bloccarlo, non si aspettava un gesto
così crudele. Il padre, invece, fa solo "pam, pam" e si mette a
ridere. In questa scena c'è tutta la commovente bontà del padre.
Da bambino, Marco stava morendo. Si salvò per miracolo, in un ospedale di
Napoli. Poi, d'estate, i medici decisero che il bambino doveva fare i
"bagni di sabbia". Insieme alla nonna scavava una buca larga e ci si
infilava dentro, lasciando fuori solo la piccola testa sudata. Quel tepore di
sabbia cocente, quell'immersione nella "terra del mare", è una
stupenda metafora della guarigione per via terrena.
Intanto Elisa continua a essere inquieta. Un giorno litiga con il padre e con la
matrigna, alla quale urla colma di odio: "I consigli li dai ai tuoi figli,
non a me. Io non sono tua figlia, schiaffatelo in testa. Io in questa casa non
sono che un peso. Per tutti. Appena mi laureo tolgo il disturbo e arrivederci.
Non mi vedrete mai più". Ma chi è veramente l'uomo brizzolato? Perché,
quando il padre decide di andarlo a "minacciare", finge di non
conoscere la lingua arbereshe? Che legame c'è tra il padre di Elisa e il suo
"amante"?
Marco scorazza in una superba campagna con il cane Spertina, tra i personaggi
principali del romanzo (un po' come Barone di "Cristo si è fermato a Eboli"),
che gli fa da guida, perché è come se intuisse tutto prima di lui. Marco
impara a conoscere la natura, gli uomini, il dolore di diventare grandi; impara
anche a nuotare, grazie all'uomo brizzolato, che si trova nei paraggi ogni volta
che Elisa torna da Cosenza. L'uomo brizzolato è un uomo strano, indecifrabile,
dolcemente crudele. Quando Elisa decide di lasciarlo, lui non lo accetta e
incomincia a farle del male. La difenderà coraggiosamente il piccolo Marco,
nelle pagine più accelerate e coinvolgenti del romanzo.
Poi, dopo tanti anni di emigrazione, il padre decide di buttare in aria le
valigie e di non partire mai più (rinasce come rinasce Cristo la notte di
Natale). Si festeggia tutta la notte, si balla, si è contenti: è la festa del
ritorno. Nel finale, quando Marco è un adulto adolescente, il padre, vedendolo
con una valigia, lo ammonisce così: "Senti a me, bir, non partire".
Come una preghiera discreta.
Più che un libro sulla devastante piaga dell'emigrazione, il nuovo romanzo di
Abate è un monumento alla santità dei padri. Essi, i padri, ti guidano, ti
proteggono, t'insegnano a vivere, piangono in solitudine quando stai male e
magari non possono raggiungerti (bellissime le pagine di quando Marco, da
piccolo, stava morendo e il padre non poteva muoversi dalla Francia, o "Fròncia",
come si dice in dialetto). Abate ha raccontato un padre del Sud come ce ne sono
a milioni in tutto il mondo; pure, una storia familiare complessa, con una
doppia maternità e un'assenza paterna che brucia come una ferita aperta. Un
romanzo così caldo, linguisticamente vivo (calabrese, arbereshe e italiano
mescolati con raro equilibrio), così "mitologico", così importante,
soprattutto perché restituisce un'immagine forte dell'infanzia (i bambini
vivono seriamente, capiscono tutto, hanno bisogno di insegnamenti e di guide
sicure e bonarie, sanno prendere decisioni importanti, ecc.) ci piacerebbe
saperlo letto da tutti e, perché no, riconosciuto in uno dei premi importanti
di questa stagione letteraria.