Mondi diversi si affrontano e si confrontano
nell'ultimo romanzo di Carmine Abate
I percorsi della memoria
di Claudio Toscani
S'era capito subito, fin dal suo esordio, che Carmine Abate
avrebbe fatto strada:un po'per quella sua fortuna, diciamo così genetica, di
possedere una vivida storia linguistica (lui è nato,cinquant'anni fa,in una nota
comunità italo-albanese del nostro meridione); un po' per quel suo provvidente
destino di poeta della realtà e prosatore dell'immaginazione. Dopo i racconti di
Il muro dei muri (1993) e i versi di Terre di andata (1996), - ricordiamo che
dalla sua Calabria Abate emigrò giovanissimo in Germania per lavoro - ecco i
romanzi Il ballo tondo (del'91), La moto di Scanderbeg (del'99) e Tra due mari
(2002), conferma di una vena narrativamente strutturata e stilisticamente
matura.
Alle sue sorgive e formative latitudini, Carmine Abate è tornato con La festa
del ritorno (Mondadori), storia familiare dalle ardenti memorie affettive. Non
il solito romanzo di crescita e/o di educazione sentimentale (il cosiddetto
Bildungsroman), ma una solida trama di rapporti tra un padre e un figlio dal
raro attaccamento reeciproco, dalle struggenti consonanze e dalle sacrali
armonie.
Allo scrittore abbiamo chiesto in che rapporti stia la storia di Marco e Tullio,
figlio e padre, del suo ultimo libro, con le sue precedenti tematiche parentali
«In rapporti strettissimi, nel senso che finora ho scritto quattro romanzi e un
libro di racconti che sono una lunga storia familiare nella cornice
dell'emigrazione, dal Sud al Nord, ma anche dall'Albania in Calabria,
cinquecento anni fa. Il rapporto padre - figlio o nonno-nipote è sempre al
centro di questa sorta di saga familiare e mi consente di raccontare e
intrecciare il passato dei padri col presente dei figli, le loro storie
quotidiane, la distanza generazionale, ma anche i sentimenti e i sogni comuni».
E in che rapporto, invece, con la tradizione letteraria che ha visto mille volte
incontri-confronti-scontri, attualità e memoria, realtà e sogni, affetti e
rimostranze, tra padri e figli?
«E' una tradizione letteraria che conosco bene ma che forse è più presente in
altri miei testi. Nella Festa del ritorno, invece, percorro una strada nuova:
racconto un rapporto tra padri e figli normale, malgrado tutto».
In effetti il sentimento che lega Marco e Tullio è esemplarmente positivo: vuoi
vedere che stavolta con i buoni sentimenti si è fatta una buona storia?
«L'epigrafe di questa storia è una frase di John Fante che dice: "Per scrivere
bisogna amare, e per amare bisogna capire". Ecco, il ragazzo ama il padre e
cerca di capirlo, il padre fa altrettanto. C'è un percorso di riconciliazione
riuscito, malgrado la lontananza del padre, costretto a emigrare per lavoro.Detto
questo, una buona storia si può fare anche con i buoni sentimenti, ma alla base
ci deve essere una buona scrittura, una narrazione efficace».
La sua narrazione è contessuta da una miriade di similitudini rurali e feriali,
tattili e olfattive, visive e corsive. Come le sembra di poter spiegare tutta
questa espressività?
«Forse dipende dallo sguardo "puro" del bambino che racconta il suo mondo - la
natura rigogliosa e profumata, gli uomini, gli animali, primo fra tutti il suo
cane Spertina - come se lo reinventasse ogni volta che lo vede, e intuisce la
bellezza dell'infanzia, coglie il lato magico delle cose: forse per questo è un
bambino felice, malgrado l'assenza del padre. E quest'aria di felicità che
respira il bambino mi piacerebbe che passasse al lettore, alla fine del libro».