La Gazzetta di Parma 29.7.2004

Mondi diversi si affrontano e si confrontano
nell'ultimo romanzo di Carmine Abate
I percorsi della memoria
di Claudio Toscani
 

S'era capito subito, fin dal suo esordio, che Carmine Abate avrebbe fatto strada:un po'per quella sua fortuna, diciamo così genetica, di possedere una vivida storia linguistica (lui è nato,cinquant'anni fa,in una nota comunità italo-albanese del nostro meridione); un po' per quel suo provvidente destino di poeta della realtà e prosatore dell'immaginazione. Dopo i racconti di Il muro dei muri (1993) e i versi di Terre di andata (1996), - ricordiamo che dalla sua Calabria Abate emigrò giovanissimo in Germania per lavoro - ecco i romanzi Il ballo tondo (del'91), La moto di Scanderbeg (del'99) e Tra due mari (2002), conferma di una vena narrativamente strutturata e stilisticamente matura.
Alle sue sorgive e formative latitudini, Carmine Abate è tornato con La festa del ritorno (Mondadori), storia familiare dalle ardenti memorie affettive. Non il solito romanzo di crescita e/o di educazione sentimentale (il cosiddetto Bildungsroman), ma una solida trama di rapporti tra un padre e un figlio dal raro attaccamento reeciproco, dalle struggenti consonanze e dalle sacrali armonie.
Allo scrittore abbiamo chiesto in che rapporti stia la storia di Marco e Tullio, figlio e padre, del suo ultimo libro, con le sue precedenti tematiche parentali
«In rapporti strettissimi, nel senso che finora ho scritto quattro romanzi e un libro di racconti che sono una lunga storia familiare nella cornice dell'emigrazione, dal Sud al Nord, ma anche dall'Albania in Calabria, cinquecento anni fa. Il rapporto padre - figlio o nonno-nipote è sempre al centro di questa sorta di saga familiare e mi consente di raccontare e intrecciare il passato dei padri col presente dei figli, le loro storie quotidiane, la distanza generazionale, ma anche i sentimenti e i sogni comuni».
E in che rapporto, invece, con la tradizione letteraria che ha visto mille volte incontri-confronti-scontri, attualità e memoria, realtà e sogni, affetti e rimostranze, tra padri e figli?
«E' una tradizione letteraria che conosco bene ma che forse è più presente in altri miei testi. Nella Festa del ritorno, invece, percorro una strada nuova: racconto un rapporto tra padri e figli normale, malgrado tutto».
In effetti il sentimento che lega Marco e Tullio è esemplarmente positivo: vuoi vedere che stavolta con i buoni sentimenti si è fatta una buona storia?
«L'epigrafe di questa storia è una frase di John Fante che dice: "Per scrivere bisogna amare, e per amare bisogna capire". Ecco, il ragazzo ama il padre e cerca di capirlo, il padre fa altrettanto. C'è un percorso di riconciliazione riuscito, malgrado la lontananza del padre, costretto a emigrare per lavoro.Detto questo, una buona storia si può fare anche con i buoni sentimenti, ma alla base ci deve essere una buona scrittura, una narrazione efficace».
La sua narrazione è contessuta da una miriade di similitudini rurali e feriali, tattili e olfattive, visive e corsive. Come le sembra di poter spiegare tutta questa espressività?
«Forse dipende dallo sguardo "puro" del bambino che racconta il suo mondo - la natura rigogliosa e profumata, gli uomini, gli animali, primo fra tutti il suo cane Spertina - come se lo reinventasse ogni volta che lo vede, e intuisce la bellezza dell'infanzia, coglie il lato magico delle cose: forse per questo è un bambino felice, malgrado l'assenza del padre. E quest'aria di felicità che respira il bambino mi piacerebbe che passasse al lettore, alla fine del libro».