La festa del ritorno
Guido Caserza
Deliziosamente congegnato, ingegnoso nella struttura, con la
biforcazione della trama nel racconto del padre e nei flash back dell'io
narrante e con quel plurilinguismo sapientemente dosato che ne costituisce, da
sempre, la cifra saliente. Stiamo parlando del nuovo romanzo di Carmine Abate,
La Festa del ritorno (pp. 165, E 7,80), approdato agli Oscar Mondadori dopo aver
pubblicato per più di un decennio (il suo romanzo d'esordio, Il Ballo tondo, è
del 1991) presso piccoli editori. La consacrazione di questo autore "di
provincia", nato cinquant'anni fa a Carfizzi, una comunità arberesh della
Calabria, discendente da quegli albanesi che nel XV secolo lasciarono il loro
paese, poi emigrato in Germania, era del resto da tempo nell'aria. Ad Abate va
infatti riconosciuto il merito di aver dato voce all'epopea dell'emigrazione e
al meticciato culturale senza mai cadere nel bozzettismo veristico e,
soprattutto di saper scrivere con la semplicità di un classico, laddove la
semplicità formale è il risultato evidente di un sapiente lavoro stilistico.
Protagonisti di questo romanzo sono un paese di lingua albanese, Hora
(l'ambiente stesso assurge, nel romanzo di Abate, al ruolo di comprimario), un
muratore emigrato in Francia che periodicamente ritorna al suo paese d'origine e
la sua famiglia: il figlio adolescente (che diventerà adulto con uno sparo di
fucile memorabile come i grandi gesti mitici), la figlia ribelle e la moglie,
una simbolica Penelope che sembra incarnare l'ethos di un intero popolo.
Un romanzo che sembra approfondire, più dei precedenti, la tematica della
memoria, celebrando il mito classico del "nostos"...
"Credo che sia un ulteriore affondo nella memoria, lo sviluppo di un
percorso che, sebbene scandagli la memoria collettiva, è sempre in funzione del
presente. Forse qui è più evidente quello che Vincenzo Consolo nello
"strillo" di copertina chiama "l'impegno della memoria", da
contrapporre al nostro tempo che ci costringe a cancellare la memoria per
concentrarci solo sul presente, dimenticando che si può vivere con più
lucidità il presente, la complessità del mondo di oggi proprio recuperando la
memoria, quella inquieta, però, quella che non ci svincola dalla nostra
responsabilità. Il tema del ritorno, inoltre, lo racconto come l'ho vissuto,
cercando di non mitizzarlo e lo collego, realisticamente e a scanso di equivoci,
alla partenza".
La partenza come destino?
"Non parlerei di destino; parlerei piuttosto di condizioni socio-economiche
e di scarsa progettualità politica che costringono la gente a emigrare, ieri
come oggi. Dal paese dove ambiento spesso le mie storie, in questi ultimi dieci
anni è emigrato il 32% della popolazione, già decimata dalle emigrazioni
precedenti. La partenza coinvolge tutti, anche i personaggi delle mie storie,
che la vivono come un'esperienza inevitabile che però consente loro di
costruirsi una dimensione di modernità".
Il romanzo è intessuto intorno al rapporto padre-figlio: un tema anche
autobiografico?
"Solo in parte. Ma più che autobiografico, considererei questo rapporto
autentico: un rapporto tra padri e figli normale, malgrado la distanza
geografica tra i due, un percorso di riconciliazione riuscito, una sorta di
avvicinamento fisico fino all'abbraccio, che è reso possibile dal dialogo
serrato, dal raccontarsi le proprie storie, i segreti che padre e figlio non
avevano mai svelato a nessuno".
Anche in questo romanzo, lei fa un uso moderato del plurilinguismo: accanto
all'italiano c'è la parlata regionale ma, soprattutto, intere frasi in arberesh:
una rivendicazione di identità?
"Più che rivendicazione di identità, il plurilinguismo è l'unico
strumento che conosco per raccontare l'identità dei miei personaggi che vivono
in più luoghi e in più culture", sottolinea Abate. E aggiunge: "Non
è ricercato, questo plurilinguismo, è semplicemente la voce autentica delle
storie, un intreccio tra l'italiano della mia scolarizzazione, la mia
madrelingua che è l'arberesh, il calabrese, il germanese o in questo caso il
francese degli emigranti. Questa mescolanza è invenzione e strumento di
conoscenza nello stesso tempo: esprime con naturalezza l'identità dei
personaggi, il loro sguardo plurimo, ibrido".