Letture giugno 2004

Meglio la mitologia dello psicodramma
di Paolo Pegoraro

"Se ai mortali fosse possibile scegliere tutto da sé, / sceglieremmo per primo il giorno del ritorno del padre". Omero sintetizzò in questo verso il duplice movimento dell'Odissea: un figlio in cerca del padre, un padre in cerca della patria. Nell'ultimo romanzo di Carmine Abate palpitano esigenze altrettanto profonde. Siamo a Hora, comunità arbëresh (italo-albanese) sulle pendici della Sila. È la notte di Natale, e il tradizionale rogo danza sul sagrato. Lì davanti padre e figlio celebrano però un'altra festa, l'annuale ritorno a casa del migrante per abbracciare i propri bambini, mentre il tempo lo rapina della loro crescita. Il racconto del padre e i ricordi di Marco si alternano e si completano, fino a conchiudersi nel momento presente. L'infanzia come età dell'oro, l'emigrazione con il suo carico di lontananza, solitudine e spasmodica attesa del ritorno, sono lo sfondo su cui si articola anche la storia di Elisa, insofferente primogenita alla ricerca delle proprie radici. La scrittura, corposa e poetica, vive di un fitto plurilinguismo. Mai bozzettistico né sterile virtuosismo, però: necessario, piuttosto, a rendere plasticamente l'esuberante vitalità della propria lingua.
A ben vedere, non ci sono grosse novità rispetto ad altri racconti di Abate: sono i temi a lui cari, dai quali non sembra lecito attendersi particolari discostamenti. È qui però che si rivela lo scrittore di razza. Raggiunta una calibratura stilistica e d'immaginario perfetta, Abate trasfigura una vicenda lineare nel suo corrispettivo mitico, focalizzandosi sulla prospettiva affettivo-archetipica e scartando quella più modernamente inflazionata dello psicodramma esistenziale. Ecco allora che il lungo dialogo davanti al fuoco natalizio rappresenta la necessità di raccontarsi e trasmettersi, e il nascere all'età adulta. Ecco che il vagabondo senza nome che gironzola attorno a Marco ed Elisa finisce col simbolizzare la nemesi dell'emigrante, un uomo che abbandona la propria famiglia per proprio volere, rinunciando alla paternità. Perché La festa del ritorno è soprattutto un omaggio commosso al proprio padre-eroe, la testimonianza di una devozione difficile ma sostenuta sempre dalla reciproca fiducia.