«La festa del ritorno» - Carmine Abate
Il nuovo romanzo di Carmine Abate è già un successo
di
Rosanna Volpe
Un libro di denuncia questo di Carmine Abate, ma anche di
sentimenti forti e genuini, in un’atmosfera magico-realistica di altalenanti
ricorsi tra presente e passato.
Altamente eloquente risulta la copertina che mostra i due protagonisti della
storia, un padre e un figlio, che alternativamente,la notte di Natale davanti al
grande fuoco acceso sul sagrato della chiesa di Santa Veneranda, raccontano
e rievocano la propria esperienza di vita, l’uno di emigrante e l’altro di
fanciullo costretto a subire e incapace di accettare la lontananza del padre per
lunghi periodi.
A Hora, quartiere albanese in Calabria, Marco, circondato dall’affetto della
mamma, della nonna e delle due sorelle, vive la propria infanzia tra gli amici
di quartiere e accompagnato sempre dal fedele e coraggioso cane Spertina.
L’ombra della nuova dipartita dal padre, costretto ogni volta, dopo la festa, a
ritornare al proprio lavoro in Francia, costituisce una costante nella vivida
memoria del ragazzo come una ferita continuamente riaperta e sanguinante. Il
naturale amore filiale e l’impellente bisogno di avere costantemente accanto e
presente la figura paterna rendono «ingiusta e crudele» (pag. 33) la necessità,
imposta dalle circostanze, che il padre rimanga lontano dalla famiglia. Tullio
era partito da giovane per la Francia e qui, inizialmente, aveva pensato di
fermarsi definitivamente se non fosse stato spinto dall’evolversi tragico degli
eventi a far ritorno al proprio paese per sposarsi. Da questo momento non può
esimersi dal fare continuamente la spola tra Francia e Calabria. Un percettibile
filo conduttore lega le storie del padre e del figlio, accomunati dal tener
celato nel proprio animo un segreto riguardante Elisa, la figlia maggiore, e la
sua relazione con un misterioso viandante. Pian piano il racconto incrociato dei
due narratori si scioglie in una confessione, lasciata cadere nel grande fuoco
del sagrato per essere avvolta e bruciata dalle fiamme alte e imperiose. Il
ritmo della narrazione prosegue fluido e lineare, catalizzato su un doppio
binario narrativo dal gioco dell’alterno scambio di punti di vista tra il padre
e il figlio. Dalla lettura del libro emerge un realismo civile, coinvolto e
appassionato, che si afferma con tinte più forti e decise nella descrizione
della desolante vita dell’emigrante, costretto per lavoro a lasciare figli,
moglie e «questa bella terra germogliata e un po’ pellizzona» (pag. 26).
Questo vivo realismo narrativo è reso ancora più sorprendentemente piacevole ed
efficace dalla fedele riproduzione dell’idioletto dei protagonisti del romanzo.
Una lingua variegata dotata di un lessico screziato e policromo, come può
esserlo il plurilinguismo degli abitanti di un paese arbëresh della Calabria: un
sincretismo linguistico in cui si mescolano italiano, calabrese e arbëresh con
le loro espressioni idiomatiche. Bisogna, dunque, riconoscere a Carmine Abate
tra le altre cose anche il grande merito di aver saputo descrivere e raccontare
con il suo romanzo quel crogiolo di lingue che sono le enclaves albanesi in
Calabria, con quel loro pluriculturalismo che evidentemente riflette e
accompagna sempre una realtà di poliglottismo e che le rende crocevia di culture
diverse. Insieme al tentativo di presentare questa meticcia realtà linguistica e
culturale come simbolo della possibile intersezione di varie culture diverse tra
loro, si avverte anche l’imperiosa e indomabile necessità di recuperare la
memoria, per non lasciare che l’oblio avvolga il passato costringendo a vivere
il presente senza l’indefettibile lezione di quanto è avvenuto prima.
Recupero della memoria è anche vivificazione dell’identità arbëreshë attraverso
il racconto di storie mitico- fiabesche di personaggi leggendari le cui vicende
sembrano riflettersi sulle storie vissute dalla gente di Hora: l’esperienza di
vita del padre di Marco sembra ricalcare quella di Kostantini i vogël, ritornato
a casa «dopo nove anni, nove mesi e novi giorni, giusto in tempo per evitare che
la moglie si risposasse con un altro» (pag. 96).
Gli elementi descrittivi e i brani puramente narrativi si fondono per dar vita
ad un intarsio prezioso e a perfetto incastro. Le vicende dell’intera famiglia
sono, infatti, immerse in un incantevole e luminoso paesaggio, ancora
profondamente rigoglioso e dovizioso di colori, sapori e profumi nella memoria
del figlio.
Abate, tramite le vivide ricostruzioni del giovane narratore, riesce a far
degustare ai nostri sensi, come reali ed attuali, gli odori e i sapori dei
«sottaceti, insaccati, olive in salamoia, funghi sott’olio, sardella e sarde
salate», tutti cibi «sugneggianti di condimenti» (pag. 16). Attraverso questi
accorgimenti sensoriali l’autore riferisce la cronaca di vita vissuta ad Hora,
ma, come per i suoi romanzi precedenti, la inserisce in una dimensione epica
ricorrendo all’immissione del punto di vista di un fanciullo, il cui racconto,
seguito ed accompagnato dalla graduale maturazione da bambino di 8 anni ad
adolescente di 13, crea un’aureola di titanica grandezza attorno alle figure che
lo circondano.