L'Unità 26 luglio 2004

Carmine Abate: L’Odissea dei migranti
Psicologia di un bambino e tema dell’emigrazione si fondono

 intervista di Andrea di Consoli

In Sintesi:
Dopo Ermanno Rea e Diego De Silva, tocca a Carmine Abate dipanare su questa pagina il rapporto tra sud e scrittura. Abate, autore de “La moto di Scanderbeg” e di “Tra due mari”, finalista al Campiello con “La festa del ritorno”, è nato a Carfizzi in provincia di Crotone. Ma ha vissuto a lungo in Germania e dal 1991 vive “a metà strada”, come dice lui, tra Amburgo e Carfizzi. Al centro della sua narrativa il tema dell’identità. Non vista come radicamento statico, ma come realtà mobile. Ibridata da lingue e contesti differenti, come l’dentità dei migranti. Nomadismo e radici, dunque. Inseparabili nella visione di Abate, calabrese della minoranza arbereshe. E rifusi dalla memoria, dal ricordo e dalla “pietas” per la lezione paterna. Un andirivieni della scrittura tra passato e presente, segnato da ricordi e rabbia. Proprio come gli andirivieni degli emigranti.

Carmine Abate, calabrese di Carfizzi, provincia di Crotone, proviene da una minoranza arbereshe. A complicare la complessa identità di Abate c'è il fatto che lo scrittore ha vissuto a lungo in Germania e, dal 1991, in Trentino, in un paese che si chiama Besenello, che si trova tra Rovereto e Trento ("l'ho scelto perché è a metà strada tra Amburgo, dove vive parte della mia famiglia, e Carfizzi, dove ho gli altri parenti", dice Abate). Sposato con una donna tedesca, lettrice all'Università di Trento, Abate si è imposto alla critica e al pubblico a partire dal romanzo "La moto di Scanderbeg", successo consolidato con i successivi "Tra due mari" e "La festa del ritorno", recente romanzo pubblicato da Mondadori e finalista al premio Campiello. Abate è un realista magico o, meglio, un realista sognante; forte è la componente realistica nei suoi romanzi, ma i suoi personaggi, pur odorando di carne viva e concretezza, sono sempre magici, poetici, sentimentali, portatori di profondi significati simbolici. Abate ci parla del suo essere scrittore meridionale.
"Io direi che questo discorso del radicamento vale per tutti gli scrittori: vale per un greco, un americano, un russo, quindi anche per un meridionale. Poi però il discorso si ferma lì. Io non credo di essere uno scrittore meridionale: sono uno scrittore e basta, uno che narra la sua terra. Poi, siccome sono nato nel Sud, è ovvio che narro il Sud; però sono anche partito per il Nord, e quindi narro anche il Nord, il rapporto tra Nord e Sud, lo scontro tra le culture. No, non c'è una particolarità nell'essere uno scrittore meridionale, non c'è nemmeno nella scrittura, perché ci sono tante scritture diverse per il mondo".
Carmine Abate è calabrese, una terra che non ha espresso molti scrittori di caratura nazionale, in specie negli ultimi decenni. Gli chiedo se sente la responsabilità della rappresentanza, ovvero di raccontare una terra in cui la maggioranza delle persone non ha trovato le parole per farlo.
"Io parto dal mio mondo particolarissimo, ma è chiaro che poi racconto la mia terra, me ne accorgo dai lettori calabresi che si ritrovano nelle mie storie. Scrivo spesso di uno dei tanti luoghi di cui è fatta la Calabria, ma la Calabria non è univoca, ci sono tante Calabrie. Lo dice in un libro bellissimo, "Il senso dei luoghi", pubblicato da Donzelli, Vito Teti, dove dimostra che la Calabria è tanti luoghi, per esempio la Calabria è anche quella che è fuori dalla Calabria. Ecco, io scrivo anche della Calabria che sta fuori dalla Calabria. Solo in questo senso gli altri mi vedono come colui che dà voce a questo territorio. La Calabria è una terra più mobile di quanto si crede, molto più multiculturale di quanto si dice. Io appartengo a una piccola minoranza arbereshe e scrivo di questa precisa realtà. Ma in Calabria ci sono tante altre realtà culturali, magari minoritarie. Il radicamento è fondamentale, si può scrivere di un microcosmo (il mio è Hora, paese immaginario e, allo tesso tempo, reale, in cui ambiento i miei romanzi) e scrivere del mondo. La mia più grande soddisfazione è quando in Trentino, dove vivo, mi dicono: 'Queste storie le ho vissute anch'io, queste storie mi riguardano'. Secondo me un luogo dà l'identità allo scrittore. Non posso parlare della realtà americana se non sono mai stato in America. Appena parlo della cultura arbereshe sono autentico, vero: sono me stesso. Però la sfida di uno scrittore è trasformare questo microcosmo in macrocosmo".
La Calabria come terra martoriata: dall'emigrazione di massa, dall'abusivismo, dalla disoccupazione, dalla malavita organizzata, dalla violenza quotidiana e da ingiustizie colossali. Chiedo ad Abate cosa pensa dell'impegno civile degli scrittori.
"Io credo che uno scrittore non possa vivere in una torre d'avorio. Lo scrittore che è radicato in un territorio deve parlare, deve anche denunciare i problemi. Io non mi vedo come uno scrittore che scrive storie non ancorate nel sociale. Ho scritto un romanzo, "Tra due mari", in cui racconto una storia anche di mafia, senza mai citare la parola mafia. Raccontare una semplice storia, certe volte, può essere molto più forte di tanti romanzi didascalici sulla mafia. Il Sud, comunque, ha bisogno di scrittori impegnati. La Calabria è piena di problemi: c'è l'abusivismo, la mafia, l'emigrazione e l'immigrazione, ci sono questi grandi problemi che io sento da quando ero bambino. Però la cosa che più mi sta colpendo, osservando Carfizzi, è lo spopolamento dei paesi, e quindi piano piano si va verso la loro scomparsa. Questo dovrebbe essere il punto all'ordine del giorno dei politici. Ovviamente non sono un politico, però bisognerebbe creare nuovi posti di lavoro, valorizzare culturalmente queste zone, puntare sulla bellezza selvaggia e straripante di queste terre per creare turismo, magari d'elite. Questo è il nodo, altrimenti in futuro avremo da un lato i paesi della costa, sovrappopolati in estate, e dall'altro i paesi dell'interno, che si spopolano, abbandonati per alluvioni, per terremoti, per disoccupazione, e che staranno lì come un triste monito".
Non soltanto ne "La festa del ritorno" la figura paterna ha un ruolo centrale. In tutta la produzione narrativa di Abate la paternità è un valore fondante. Gli chiedo che lettura "politica" sia possibile partendo da questo dato narrativo.
"Io parlo del padre nei mie libri innanzitutto in maniera concreta, partendo dall'esperienza personale, autobiografica. Anche mio padre ha lasciato la famiglia per andare a lavorare all'estero, però mi sono accorto che, malgrado la partenza, questi nostri padri hanno continuato a interessarsi della propria famiglia, hanno continuato a trasmettere ai figli dei valori, a proteggere la famiglia da lontano, e hanno sempre cercato di mantenere vivo questo tesoro di esperienze della gioventù per trasmetterlo ai propri figli, come si trasmette il testimone. Io ho intuito che questo tesoro d'esperienze dei padri poteva essere utile oggi, al presente, perché in fondo i nostri genitori hanno affrontato la vita di petto, senza aspettarsi niente da nessuno, e questo, a mio avviso, è un grande valore. I nostri genitori, dopo la guerra, non avevano lavoro, perciò hanno occupato le terre, le terre padronali, cercando di risolvere da soli la situazione occupazionale, e quindi anche a livello politico avevano le idee chiare. Poi sono emigrati in maniera dignitosa. Si pensa spesso agli emigranti come fossero gli elementi peggiori di una terra, invece sono i più intraprendenti, i più attivi; emigrano perché non accettano compromessi, perché non accettano la rassegnazione, e quindi nella loro vita lottano. Per questo nei miei libri il padre non è una figura conflittuale rispetto al figlio; c'è sempre questo tentativo di riconciliazione, di riavvicinamento alla figura del padre. Il padre ci ha lasciato un'eredità, e questa eredità è fondamentale".
Per Abate il problema dell'identità è una faccenda complessa: c'è la Calabria, c'è la cultura arbereshe, la lingua italiana acquisita a posteriori, l'emigrazione in Germania e la vita, oggi, in un paese del profondo Nord. Un vero e proprio guazzabuglio, in cui è difficile orientarsi. Gli chiedo se la questione dell'identità sia una faccenda da esuli.
"L'identità è possibile anche non muovendosi mai. Essendo io emigrato da giovane, è chiaro che mi sono posto in prima persona il problema dell'identità. Ho cercato di trasformare questo problema in uno strumento narrativo, per esempio per me un'identità plurima significa anche plurilinguismo. I miei personaggi abitano più mondi e vivono più culture, quindi questo plurilinguismo è la voce autentica dei miei personaggi. La mia lingua è una mescolanza, un intreccio tra l'italiano, l'arbereshe, il calabrese e il germanese, che è la lingua degli emigranti in Germania. Attraverso questo linguaggio particolare il lettore entra subito in quel mondo, entra nel cuore della storia, e vede questa lingua non come uno sperimentalismo intellettulistico, ma come un affondo nella carne dell'identità ibrida e plurima dei personaggi e del loro autore".
A partire dalla metà degli anni Novanta la critica letteraria italiana ha iniziato a parlare di "nuova narrativa meridionale". Una nuova generazione di scrittori, nati principalmente negli anni Sessanta, si è affacciata nel mondo letterario, ribaltando vecchi cliché del meridionalismo e dell'engagement. Chiedo a Carmine Abate quale possa essere il senso di questa ondata, di questo "gruppo" disomogeneo a livello tematico, ma unito dal vincolo territoriale.
"Mi sembra quasi ovvio che la critica letteraria ragioni in questi termini, veda le affinità che ci sono fra me e gli altri scrittori come me nati al Sud. Io non conosco quasi nessuno di questi scrittori a cui mi accostano, certamente leggo i loro libri, ma vedo anche tante differenze. Io forse sono più vicino agli scrittori del Sud del mondo, a quegli scrittori che vivono all'estero e scrivono con una lingua diversa dalla madrelingua (la mia lingua è l'arbereshe, non l'italiano). Capisco però questa necessità della critica di mettere insieme delle persone, ma tutto questo è ininfluente sul lavoro dello scrittore. C'è un gruppo di bravi scrittori meridionali che finalmente, pur scrivendo del Sud, va oltre i luoghi comuni sul Sud, questa è la novità di scrittori come Montesano, Alajmo, De Silva, Calaciura, Franchini e Braucci, tra quelli che mi ricordo in questo momento. La cosa incredibile è che quando si parla di letteratura meridionale si parla ancora di Verga, e intendiamoci: Verga è stato un genio, ma gli scrittori di oggi c'entrano poco con Verga. La cosa nuova di questi scrittori è che si sono allontanati dal cliché di una letteratura meridionale fatta di piagnisteo e di denuncia. Noi meridionali non ci piangiamo più addosso".
In ogni persona c'è una cosa, un momento, un paesaggio che ha il potere di commuoverla ogni volta allo stesso modo. Chiedo ad Abate quale sia il momento di maggiore commozione, magari in Calabria.
"La prima cosa che mi viene in mente è la partenza degli emigranti. E' la cosa che mi commuove ancora. Questa gente che sa che nel Sud lascia qualcosa di sé, e sente questo strazio infinito. E' solo un momento, poi non è più così. Mi commuovo quando vedo i miei amici partire per la Germania: come una ferita che si riapre a ogni partenza. Il dramma degli emigranti non è il fatto di vivere fuori, ma il fatto di essere stati costretti ad andare fuori per colpa della disoccupazione e dalla malapolitica. Il momento della partenza ti fa ricordare la prima partenza. E' una rabbia che non scompare mai".