Carmine Abate, La festa del ritorno
di Giuseppe Traina
"Parti, naturalmente, come sono partito io e tanti
giovani del paese, ché non avevamo scampo. Il lavoro di contadino, con quel
poco di terra che abbiamo, ci bastava appena per non morire di fame. Avevamo
case piccole come zimbe, vecchie e senza comodità. E non ci voleva molta
spertizza a immaginare che voi figli avreste fatto la nostra stessa vita
caprigna. Mentre il mondo progrediva. Progrediva pure da noi." […]
"Per questo sono partito," disse "per questo non posso ancora
ritornare per sempre. Se torno chi li manda i soldi a Elisa per l'università?
Che ci mangiamo, se ritorno, capocchie? Come riuscirai tu da grande a diventare
uno studiato? Ancora non puoi capire, bir, ma un giorno capirai."
Sono questi i termini, nudi e crudi, della questione emigrazione, così come li
ripropone Carmine Abate nel suo nuovo libro. Ma la questione sociale è solo uno
dei tanti motivi d'interesse che La festa del ritorno offre. Dopo due
misconosciuti libri di racconti e poesie, e dopo tre splendidi e fortunati
romanzi (Il ballo tondo, La moto di Scanderbeg e Tra due mari), Abate si è
provato nella misura del romanzo breve. E anche in questo caso ha colpito il
bersaglio in pieno, donandoci un testo di esemplare compattezza ed equilibrio
tra le parti.
Calabrese di cultura arbëreshë (quella delle enclaves albanesi d'Italia),
Abate è un caso, in Italia più unico che raro, di scrittore che sa unire una
traboccante inventività con una cura raffinata dell'articolazione narrativa e
dell'impasto linguistico. Non casualmente i suoi romanzi sono stati apprezzati
da un lettore esigente come Consolo e da tutti coloro che non sono disposti a
credere che la letteratura del presente e del futuro possa esaurirsi nel mero e
celibe trionfo della fiction né, d'altronde, hanno mai innalzato peana alla
"morte del romanzo". Per costoro, un libro di Abate è, non da ora, un
luogo dove piacere e godimento del testo si sposano in perfetta letizia.
E vien voglia di rileggere proprio Barthes, là dove parla del "testo di
piacere" come "Babele felice". Nei libri precedenti di Abate -
dove aveva sempre spazio il tema dell'emigrazione in Germania -, il tedesco, l'arbëresh,
il calabrese e la lingua dei "germanesi" emigrati si inserivano nel
tessuto linguistico italiano senza stridori voluti né compiacimenti localistici,
anzi con naturalezza, perché alla base della sua scrittura stanno dialoghi e
narrazioni autentiche, nenie e rapsodie ascoltate da bambino, in un mondo che
ben conosceva la dimensione bachtiniana del "vicinato". Tutto questo
nella Festa del ritorno c'è ancora, ma il tedesco e il "germanese"
sono scomparsi perché Tullio, il padre dell'adolescente Marco, è emigrato in
Francia (come il padre dell'autore; che, invece, dopo la laurea in Lettere,
andò in Germania); la dimensione plurilinguistica della scrittura si realizza
adesso nell'alternanza di italiano regionale ed arbëresh (con rari inserti di
dialetto calabrese e siciliano e delle storpiature dal francese, tipiche della
lingua degli emigranti), ma soprattutto nella plurivocità, all'incrocio tra i
diversi registri del parlato e nella costruzione di un'originalissima
"scrittura della memoria", che riesce a congiungere il retaggio della
memoria collettiva (saldamente condivisa dal singolo) alle ulcerazioni della
memoria individuale.
Il romanzo vede incrociarsi, davanti al grande falò della natalizia "festa
del ritorno", i ricordi di Marco e quelli di Tullio, e, nel discorso
riferito, anche le voci della madre di Marco, della nonna, della sorella
maggiore Elisa e della minore, la Piccola. Nei brevi periodi in cui l'emigrato
ritorna a Hora (il toponimo d'invenzione con cui Abate parla del nativo Carfizzi),
si sviluppa una bella complicità tra padre e figlio, che provvisoriamente
risolve la mancanza angosciante per il bambino e la nostalgia lacerante
dell'adulto: "camminavo al fianco di mio padre, solo questo
m'importava". Ma il dialogo tra i due è pure appesantito da reticenze e
omissioni che lasciamo ai lettori il piacere di scoprire: diremo solo che si
tratta di normali schermaglie tra padre e figlio, che però, confrontate alle
situazioni di irrisolto conflitto dei precedenti romanzi (padri assenti o troppo
ingombranti o sostituiti da fiabesche figure di nonni), segnano un congruo passo
avanti lungo l'itinerario di maturazione intrapreso, di libro in libro, dal
plurimo eroe che abita questi testi.
Poiché i ricordi di Tullio sono incastonati dentro quelli del figlio,
l'adozione del punto di vista di Marco consente anche in questo caso ad Abate -
mai così consapevole dei suoi mezzi tecnici - di esprimere la
"pienezza" nel rapporto uomo-natura in termini che potrebbero far
pensare a un'anacronistica epica pre-moderna (si veda almeno il rapporto con la
cagna Spertina); e invece, come con la consueta precisione ha chiarito Renato
Nisticò, Abate costruisce nei suoi libri "un'epica contromoderna" che
fonde "il tempo dell'epica antica, e la condizione di disincanto della
modernità aperta a un futuro incerto, problematico". Sicché l'alternativa
finale tra emigrare e partire si potrà porre, per Marco, come scelta e non come
costrizione: frutto, insomma, di una maturazione vera, per la quale deve
ringraziare proprio l'esperienza paterna. Il che, in una letteratura
tradizionalmente povera di positivi rapporti padre-figlio com'è quella
italiana, non è davvero cosa di poco conto.