Una penna intinta nell'inchiostro della lontananza
di Walter Mauro
Carmine Abate è nato nel 1954 a Carfizzi, una comunità in provincia di
Crotone di radici arbéreshe, cioè italoalbanesi. Emigrato da giovane in
Gemania, vive oggi nel Trentino dove fa l’insegnante. Ha esordito in
Germania con un libro di racconti, che poi apparirà in Italia nel 1993 con
il titolo Il muro dei muri. In seguito un libro di versi intitolato, «Terre
di andata» nel 1996, e poi tre romanzi «La moto di Scanderbeg» (1999), «Il
ballo tondo» (2000) e «Tra due mari» (2002). La presenza come emigrante in
Germania ha segnato fortemente la personalità e soprattutto ha inciso sul
linguaggio, un impasto di grande interesse fra incroci di scrittura che
conducono ora ad una prosa molto limpida e accattivante, dominata da
percezioni espressive che si sviluppano a vortice, con risultati molto
singolari per quanto riguarda il confronto ormai storico fra Meridione e
scrittura. Proprio all’interno di questo rapporto si manifesta l’originalità
di questo scrittore che certamente ha rappresentato una rilevante novità
nella letteratura meridionale, liberandola da quell’atmosfera da "stato
d’assedio" (come la definì in tempi lontani Carlo Bo) che ne ha
caratterizzato gli sviluppi. Ne scaturisce un confronto fra nomadismo e
spaesamento da un parte, e reperti della memoria dall’altra che segna un
tenace raffronto in quest’ultimo testo come nei precedenti romanzi.
Un Natale per unire padre e figlio
di Walter Mauro
Ricordi e storie d’amore di
emigranti: «La festa del ritorno» di Abate, in odor di vittoria al Campiello
Il meridione d’Italia visto con occhi disincantati ma pieni di antiche
sofferenze in un paesino calabrese si sviluppa una vicenda sospesa tra
storia e leggenda legami famigliari spezzati dalla necessità di lasciare i
propri cari per sopravvivere
Dai tempi ormai remoti del neorealismo, e
della successiva stagione che ha visto il fenomeno protrarsi oltre ogni
lecita misura, con scompensi inevitabili, la nuova temperie che sta vivendo
la letteratura del Meridione d’Italia si fonda essenzialmente sul confronto
generazionale, un aspetto che il dolore meridionale non conosceva nei vecchi
testi, e che ora invece si sviluppa attraverso processi di scrittura del
tutto diversi, molto più approfonditi di quanto la prassi del realismo a
oltranza riuscisse a produrre e sviluppare. Si potrebbe fare il nome di
Ermanno Rea, come di uno scrittore già consolidato e del quale su questa
pagina ci siamo occupati, ma è il caso di porre accanto a quel nome, adesso,
quello di uno scrittore del Sud che proviene dalla Calabria, in particolare
dall’area crotonese, quest’anno finalista al Premio Campiello, con buone
probabilità di vincerlo.
Carmine Abate, con «La festa del ritorno» riprende tematiche e motivazioni
già presenti nella cultura del Sud, ma l’aspetto di fondo che vuol
sottolineare riguarda il confronto generazionale fra un padre e un figlio.
Il primo emigrante di continuo sollecitato a raccontare la propria vita, e
quindi a dar conto all’erede diretto dell’universo di dolore e di pena
riflesso nella traumatica ferita del distacco dal paese, dal mondo
circoscritto di un piccolo centro e la realtà urbana, cosmopolitica, di una
città come Amburgo, dove per molti anni Abate è vissuto e ha lavorato. Il
figlio a sua volta ha scontato il colpo dello spaesamento e dell’assenza del
padre: assai sospinto quest’ultimo dall’incantamento avidamente sollecitato
da un’infanzia che pure si popola di suggestive visioni, al vivo di un
paesaggio rigoglioso e fantasioso, dove è possibile accendere più di una
fiaccola evocativa. L’azione narrativa si sviluppa durante una notte di
Natale, davanti ad un grande fuoco acceso sul sagrato: «La festa cominciò in
piazza non appena lui scese dalla corriera. La festa del ritorno di mio
padre e, insieme, quella del Natale. Era carico di regali per tutti: per i
parenti, per gli amici, per i vicini di casa, per me, la piccola, la nonna e
la mamma. Non aveva dimenticato nessuno». Il clima sembra pacifico e
tranquillo, ma qualcosa di segreto e di strano serpeggia fra i due e
coinvolge l’intero gruppo di famiglia: l’uno e l’altro hanno qualcosa di
indicibile, di non rilevabile che finisce per congiungerli e separarli
inevitabilmente: c’è un personaggio misterioso, legato da un robusto vincolo
d’amore per la figlia maggiore, che i due conoscono ma che costa molto
rivelare, ancor più parlarne in un momento così particolare, che rappresenta
uno sforzo di unione e non di divisione: «Elisa ritornava di rado e se
poteva mi evitava per prudenza. Al nostro segreto non pensavo da tempo. Più
che calabroni, nella testa avevo piombo. Piombo e sassi. Mi sentivo pesante.
E pieno di rabbia da scoppiare»... Lungo l’arco del diagramma narrativo,
l’enigma assume parvenze e ritmi da romanzo poliziesco, ma l’indagine, la
ricognizione, son tutte interiorizzate e sviluppate lungo crinali che
debbono fatalmente condurre ad un finale sorprendente e imprevisto, da non
svelare ovviamente. Tutto l’intreccio si sviluppa in un paesino calabrese di
remote origini arberesh come sospeso fra storia e leggenda, un duplice
strato impenetrabile che serve a rendere più drammatico il concerto a due
voci che i protagonisti organizzano come un grande banchetto, in cui si
festeggia un ritorno, ma anche si determina una resa di conti tutta intrinsa
di silenzi e di allusioni, come si addice alla migliore letteratura di
formazione.
Ma oltre che questo, il nuovo testo di Abate è anche una dolente storia
d’amore fortemente viziata da un trauma d’origine, che poi si riduce ad una
domanda ancora più dolente: per quale ragione tanta gente del Sud e
d’Italia, è stata costretta a spezzare il filo degli affetti, il nodo dei
sentimenti per cercare altrove nuovi impossibili legami, improbabili
congiungimenti. All’interno del filo romanzesco emerge come duro trauma
esistenziale la fatica di crescere, l’ansia struggente che sta dietro la
cerimonia degli addii, tutti fili segreti che conducono al senso della vita.