Il Tempo 8 agosto 2004

Una penna intinta nell'inchiostro della lontananza
di Walter Mauro

Carmine Abate è nato nel 1954 a Carfizzi, una comunità in provincia di Crotone di radici arbéreshe, cioè italoalbanesi. Emigrato da giovane in Gemania, vive oggi nel Trentino dove fa l’insegnante. Ha esordito in Germania con un libro di racconti, che poi apparirà in Italia nel 1993 con il titolo Il muro dei muri. In seguito un libro di versi intitolato, «Terre di andata» nel 1996, e poi tre romanzi «La moto di Scanderbeg» (1999), «Il ballo tondo» (2000) e «Tra due mari» (2002). La presenza come emigrante in Germania ha segnato fortemente la personalità e soprattutto ha inciso sul linguaggio, un impasto di grande interesse fra incroci di scrittura che conducono ora ad una prosa molto limpida e accattivante, dominata da percezioni espressive che si sviluppano a vortice, con risultati molto singolari per quanto riguarda il confronto ormai storico fra Meridione e scrittura. Proprio all’interno di questo rapporto si manifesta l’originalità di questo scrittore che certamente ha rappresentato una rilevante novità nella letteratura meridionale, liberandola da quell’atmosfera da "stato d’assedio" (come la definì in tempi lontani Carlo Bo) che ne ha caratterizzato gli sviluppi. Ne scaturisce un confronto fra nomadismo e spaesamento da un parte, e reperti della memoria dall’altra che segna un tenace raffronto in quest’ultimo testo come nei precedenti romanzi.

Un Natale per unire padre e figlio
di Walter Mauro

Ricordi e storie d’amore di emigranti: «La festa del ritorno» di Abate, in odor di vittoria al Campiello
Il meridione d’Italia visto con occhi disincantati ma pieni di antiche sofferenze in un paesino calabrese si sviluppa una vicenda sospesa tra storia e leggenda legami famigliari spezzati dalla necessità di lasciare i propri cari per sopravvivere

Dai tempi ormai remoti del neorealismo, e della successiva stagione che ha visto il fenomeno protrarsi oltre ogni lecita misura, con scompensi inevitabili, la nuova temperie che sta vivendo la letteratura del Meridione d’Italia si fonda essenzialmente sul confronto generazionale, un aspetto che il dolore meridionale non conosceva nei vecchi testi, e che ora invece si sviluppa attraverso processi di scrittura del tutto diversi, molto più approfonditi di quanto la prassi del realismo a oltranza riuscisse a produrre e sviluppare. Si potrebbe fare il nome di Ermanno Rea, come di uno scrittore già consolidato e del quale su questa pagina ci siamo occupati, ma è il caso di porre accanto a quel nome, adesso, quello di uno scrittore del Sud che proviene dalla Calabria, in particolare dall’area crotonese, quest’anno finalista al Premio Campiello, con buone probabilità di vincerlo.
Carmine Abate, con «La festa del ritorno» riprende tematiche e motivazioni già presenti nella cultura del Sud, ma l’aspetto di fondo che vuol sottolineare riguarda il confronto generazionale fra un padre e un figlio. Il primo emigrante di continuo sollecitato a raccontare la propria vita, e quindi a dar conto all’erede diretto dell’universo di dolore e di pena riflesso nella traumatica ferita del distacco dal paese, dal mondo circoscritto di un piccolo centro e la realtà urbana, cosmopolitica, di una città come Amburgo, dove per molti anni Abate è vissuto e ha lavorato. Il figlio a sua volta ha scontato il colpo dello spaesamento e dell’assenza del padre: assai sospinto quest’ultimo dall’incantamento avidamente sollecitato da un’infanzia che pure si popola di suggestive visioni, al vivo di un paesaggio rigoglioso e fantasioso, dove è possibile accendere più di una fiaccola evocativa. L’azione narrativa si sviluppa durante una notte di Natale, davanti ad un grande fuoco acceso sul sagrato: «La festa cominciò in piazza non appena lui scese dalla corriera. La festa del ritorno di mio padre e, insieme, quella del Natale. Era carico di regali per tutti: per i parenti, per gli amici, per i vicini di casa, per me, la piccola, la nonna e la mamma. Non aveva dimenticato nessuno». Il clima sembra pacifico e tranquillo, ma qualcosa di segreto e di strano serpeggia fra i due e coinvolge l’intero gruppo di famiglia: l’uno e l’altro hanno qualcosa di indicibile, di non rilevabile che finisce per congiungerli e separarli inevitabilmente: c’è un personaggio misterioso, legato da un robusto vincolo d’amore per la figlia maggiore, che i due conoscono ma che costa molto rivelare, ancor più parlarne in un momento così particolare, che rappresenta uno sforzo di unione e non di divisione: «Elisa ritornava di rado e se poteva mi evitava per prudenza. Al nostro segreto non pensavo da tempo. Più che calabroni, nella testa avevo piombo. Piombo e sassi. Mi sentivo pesante. E pieno di rabbia da scoppiare»... Lungo l’arco del diagramma narrativo, l’enigma assume parvenze e ritmi da romanzo poliziesco, ma l’indagine, la ricognizione, son tutte interiorizzate e sviluppate lungo crinali che debbono fatalmente condurre ad un finale sorprendente e imprevisto, da non svelare ovviamente. Tutto l’intreccio si sviluppa in un paesino calabrese di remote origini arberesh come sospeso fra storia e leggenda, un duplice strato impenetrabile che serve a rendere più drammatico il concerto a due voci che i protagonisti organizzano come un grande banchetto, in cui si festeggia un ritorno, ma anche si determina una resa di conti tutta intrinsa di silenzi e di allusioni, come si addice alla migliore letteratura di formazione.
Ma oltre che questo, il nuovo testo di Abate è anche una dolente storia d’amore fortemente viziata da un trauma d’origine, che poi si riduce ad una domanda ancora più dolente: per quale ragione tanta gente del Sud e d’Italia, è stata costretta a spezzare il filo degli affetti, il nodo dei sentimenti per cercare altrove nuovi impossibili legami, improbabili congiungimenti. All’interno del filo romanzesco emerge come duro trauma esistenziale la fatica di crescere, l’ansia struggente che sta dietro la cerimonia degli addii, tutti fili segreti che conducono al senso della vita.