Gazzetta del Sud 1 settembre 2004

Il festoso ritorno alle radici
Un romanzo d'amore sul rapporto tra padre e figlio

 di Gualtiero Canzoni

Le scintille ci avvolgevano, sembravano sciami d'api crepitanti; poi si azzittivano spegnendosi e ci cadevano sui capelli e sui vestiti coma una bufera di neve, e mio padre diceva che un fuoco così non si era mai visto, pare fatto apposta per schiffarci dentro i ricordi più malamenti, diceva, e appicciarli in un lampobaleno, per sempre. Stavamo ammirando il fuoco di Natale, quella notte, seduti sulla scalinata della chiesa di Santa Veneranda...». Ha inizio così lo struggente prologo del libro di Carmine Abate «La festa del ritorno» (Mondadori), apparentemente storia di emigrazione, ma sostanzialmente romanzo d'amore tra padre e figlio. Lo scrittore calabrese (nato a Carfizzi, una comunità italo-albanese, vive in Trentino, dove insegna), vincitore di prestigiosi premi, tra cui il «Rhegium Julii» con «Tra due mari», nel suo recente soggiorno reggino ha tenuto tre incontri: il primo a Reggio Calabria (nella splendida cornice dell'Oasi di Pentimele), introdotto da Pino Bova (relatrice la prof. Francesca Neri), e preceduto dall'«Invito alla lettura», proposto dai Giovani del Rhegium Julii (con nota critica di Francesco Idotta) e dall'originale selezione de «Il libro dei caffè» condotta da Orsola Toscano (letture di Mariella Poeta e Daniela Zaccuri): il secondo ospite del Comune di Bagnara Calabra (a presentarlo è stato il dott. Marcello Scordo, con interventi del sindaco dott. Santi Zappalà, dell'assessore alla cultura prof. Giuseppe Pirrotta, del dott. Franz Scordo, presidente del Circolo Unione, e del prof. Franco Cernuto, preside del Liceo Fermi); il terzo con i cittadini di Santo Stefano d'Aspromonte in un dibattito promosso dal Circolo «13 settembre 2003», con interventi del presidente on. Stefano Priolo e dei relatori professori Elio D'Agostino e Stefano Iatì. «La festa del ritorno» (premio Selezione Campiello 2004) è un libro a due voci, narrato con due diversi canoni linguistici: il primo scarno e pacato, perché dal tranquillo presente ripercorre un sofferto passato; il secondo veemente e dissacrante, perché fatto di giovanile baldanza. Entrambi i vissuti, però, si assimilano nel ritmo narrativo che li alterna imprescindibilmente, rendendoli complementari. Tra la Calabria femmina, capace di occultare il quotidiano e seppellirlo a volte senza possibilità di riesumazione, e la Francia donna nemica-amica e seduttrice, il narratore viaggia, tenendo sempre presente che le radici non si recidono mai del tutto, finché c'è qualcuno che ricorda i nostri insegnamenti: «E fjalë e dhë në, la parola data, la devi sempre rispettare», mi diceva spesso mio padre «perché altrimenti sei un cafòrchio traditore, uno capace di tutte le malvagerie di questo mondo». Tra dialetto calabrese, italiano e lingua arbëreshe, Abate scuote il lettore con una tenera storia in cui il silenzio dell'indifferenza si apre al canto della solidarietà, anche tra uomo e animale. I calabresi di Abate sono romantici e concreti, le donne bellissime e sensuali, come Elisa che si lascia succhiare il seno da uno sconosciuto sulle rive delle chiare fresche e dolci acque del Varchijuso. Nella calda e afosa Calabria la voce di Abate è un dissetante naturale, una parola che lascia ben sperare: ascoltiamolo.
– Possiamo definire, quindi, come dicevamo, "La festa del ritorno" un romanzo d'amore tra padre e figlio? «Sì, "La festa del ritorno" è anche un romanzo d'amore proprio perché nel libro si racconta un rapporto autentico di amore reciproco tra un padre e figlio, nonostante la distanza geografica tra i due: un percorso di riconciliazione riuscito, un avvicinamento fisico, quasi l'esigenza di un forte e lungo abbraccio, che il distacco, i continui addii hanno sempre ostacolato. Però il legame tra i due è comunque molto stretto, normale, cioè non conflittuale, pur vivendo per gran parte dell'anno in mondi diversi. Si rispettano e si amano, senza mai dirselo e quando finalmente raccontano le loro storie, anche le più segrete, il padre e il figlio, così come i due mondi in cui vivono, si avvicinano, si incontrano, si capiscono».
– I giovani che oggi lasciano la casa paterna vanno all'estero per studiare o per vacanza, e spesso lo fanno per sfuggire a un conflitto; essi forse non possono capire la sofferenza di chi è stato costretto all'abbandono. Emblematico, in tal senso, è il personaggio di Elisa, la sorella maggiore di Marco, il protagonista del romanzo. «Sì, Elisa è un po' l'emblema delle nuove generazioni. Si ribella alle convenzioni soffocanti, a una società, a una famiglia che vorrebbero scegliere per lei, per il suo bene. È il personaggio più moderno del romanzo che vive il dramma della ricerca dell'autonomia, ma è anche sfuggente, misteriosa e in un certo senso ambigua, perché da una parte scappa dal padre, dalla famiglia, dall'altra vorrebbe la loro protezione. In fondo, rappresenta un'altra faccia della partenza di tanti giovani, che vivendo in posti diversi da quello d'origine, cercano di costruirsi una dimensione di modernità».
Le radici che senso hanno nella vita di un uomo e nella sua in particolare? «Le radici, per un uomo, sono importanti come lo sono per un albero: senza, ci si secca, si diventa aridi, senza linfa vitale. Le radici sono la nostra memoria più profonda, le nostre storie, i valori condivisi. Anche se si vive lontani dalla terra in cui si è nati, le radici bisogna curarle, tenerle in vita. Così come bisogna valorizzare le nuove radici che inevitabilmente ti senti spuntare sotto i piedi nei nuovi mondi in cui vivi. Per quanto mi riguarda, cerco di convivere con quest'identità che è fatta di radici vecchie e nuove – arbëreshe, germanesi, calabresi, trentine – ma tutte vive, e considero tutto questo come una ricchezza e non come è stato per l'emigrante tradizionale: un ostacolo, una palla al piede».
– Cosa rappresenta il ritorno per Carmine Abate. È veramente una festa? «So bene che il ritorno può essere – e spesso è – anche dolore, legato alla nostalgia che vuol dire letteralmente dolore del ritorno. In questo libro ho però voluto porre l'accento sul lato festoso del ritorno: così lo è stato per me bambino quando ritornava mio padre dall'estero, così lo è oggi per me quando ritorno al mio paese: un viaggio continuo di riconciliazione con il luogo di origine. Ma soprattutto il ritorno è un modo per non perdere un pezzo importante di noi, quello in cui sono racchiuse le nostre storie più preziose e la nostra memoria».
– Quanta importanza ha la parola per un narratore? «Molti critici e lettori hanno notato che l'anima del mio romanzo è il farsi parola vera, che cristallizza in sé la storia e il sentimento della storia. Già questo potrebbe spiegare la grande importanza che do alla parola. Del resto, un racconto funziona – nel senso che emoziona chi lo scrive e chi lo legge – solo se riesce a diventare parola vera, autentica. Il che, ovviamente, non è così semplice soprattutto per uno scrittore come me che utilizza parole di più lingue: l'arbëresh, la mia madrelingua, l'italiano della mia secolarizzazione, il germanese – e in questo caso il francese – degli emigranti, ma che è sempre più attratto da parole calabresi magari di origine araba, greca, spagnola, parole che immediatamente mi evocano delle storie».