La Gazzetta del Sud 4.42004 «La festa del ritorno» di Carmine Abate Un fuoco così non s'era mai visto nella notte di Natale, sembrava fatto apposta per tirar fuori i ricordi di tutta una vita e gettare, nel crepitio delle scintille, i pensieri peggiori, i «più malamenti», e farli bruciare, per sempre. Davanti a un grande falò, sul sagrato della chiesa di Hora, paesino della comunità arberesh della Calabria, nella notte della più bella festa cristiana, un padre racconta la sua vita di emigrante al figlio. Al termine del racconto, di uno scambio affettuoso di ricordi e di memoria tra genitore e figlio, in cui accade che i caratteri umani si liberino dai veli della non conoscenza e gli affetti paterni e filiali si ritrovino insieme e definitivamente, l'uomo, l'emigrante, con un improvviso e inatteso colpo di teatro, decide che non partirà più. Resterà per sempre a Hora, con la sua famiglia. Tullio, l'emigrante in Francia, compie un gesto di forse significato simbolico. Prende la vecchia valigia che evoca la storia triste delle partenze e dei ritorni e la butta nel fuoco, per farla bruciare. Come un attore sul palcoscenico, nella scena finale di un'opera teatrale, in quella piazza gremita di parenti e amici, l'emigrante, con voce liberatoria e solenne annuncia la sua decisione. Continuerà a vivere e morirà a Hora, il paese dov'è nato. Quella valigia, scagliata nel fuoco e fatta bruciare, rappresenta un gesto di liberazione dalla schiavitù dell'emigrazione e una reazione alla violenza del distacco dalla propria terra. Metafora di una vita fatta di affetti strappati, di amori non consumati, di mogli e figli dentro il cuore, ma in qualche modo estranei, distanti. Un partire che è un po' morire, un partire per poter sopravvivere alla povertà e dare da mangiare ai figli. L'io narrante della storia è Marco, il figlio dell'emigrante. Sulla scena del racconto si muovono altri personaggi, la figlia Elisa, studentessa a Cosenza, la seconda moglie di Tullio (la prima è morta in Francia quando Elisa era ancora bambina), la «Piccola», cosiddetta perché ultima nata, la nonna, e il cane Spertina. Dentro questo interno di famiglia, nel paesaggio vivido ed esuberante di Hora, si dipana il filo conduttore della storia narrata nel nuovo e intenso romanzo di Carmine Abate, «La festa del ritorno» (Oscar Mondadori, pagine 161, Euro 7,80). Un racconto dell'intimità familiare e di situazioni amorose e psicologiche che, come in un enigma, si svelano poco a poco e coinvolgono e catturano il lettore. Una storia forte e a volte drammatica, rafforzata dai toni della disperazione e degli addii che lacerano il cuore e restano incisi per sempre nell'anima. Romanzo di formazione, come è stato definito, ma anche delicata storia d'amore familiare, «La festa del ritorno», è prima di tutto romanzo appassionato sulle vite spezzate, come sono quelle degli emigranti. Abate, in questa sua nuova prova, si conferma narratore di grande talento e inserisce, in maniera definitiva, nella scia dei romanzieri di quella letteratura meridionale che ha contributo a far grande la letteratura italiana. Scrive storie meridionali, Carmine Abate, da uomo del meridione, e come è accaduto in passato ad altri narratori «esuli» del Sud, diventa custode, con il suo racconto, di valori e tradizioni dimenticate. Lo scrittore di origine italo-albanese vive a Trento, dove insegna, ma è stato egli stesso emigrante, da giovane, in Germania, paese dove ha pubblicato i suoi primi racconti, scritti in lingua tedesca e poi tradotti in italiano, tra questi «Den Koffer und weg! (Il muro dei muri). Poi sono arrivati i romanzi, «La moto di Scanderbeg», «Il ballo tondo» e «Tra due mari», che lo hanno fatto conoscere al pubblico dei lettori italiani. Con «La festa del ritorno», Carmine Abate, che non ha mai dimenticato Carfizzi, il paese dove è nato, nel Crotonese, ridiscende nel grembo della terra natale, si muove in quel liquido amniotico che conserva gli amori e gli affetti negati dai destini della vita. Il suo romanzo diventa denuncia verso l'abbandono in cui i paesi del Sud sono lasciati e contro la povertà che spinge gli uomini a cercare fortuna emigrando. Emigrare, come ha fatto Tullio, per sfuggire ai morsi della fame, ma per poi subire i morsi della nostalgia e le amputazioni dall'abbraccio delle famiglie. È questo il gioco crudele della vita dell'emigrante. Quando il padre getta nel fuoco la valigia di emigrante, Marco, il figlio, è consapevole che presto toccherà a lui comprarne una nuova, per partire. Una valigia in finta pelle. Non è servito a nulla aver bruciato la vecchia valigia di Tullio, che una volta tornato, appena riassapora la felicità di una famiglia riunita, intuisce che Marco sta per prendere il suo posto nella vita di emigrante e trova la forza soltanto di dire: «Senti a me, non partire». |