La Gazzetta del Sud 20.4.2004

Carmine Abate: "La festa del ritorno"
L'esilio rimane in agguato e avvelena pure i ricordi

CARMINE ABATE La festa del ritorno Mondadori pagine 163 - euro 7,80
Giuseppe Amoroso

La notte di Natale in un piccolo paese arbëresh di Calabria. Seduti sulla scalinata della Chiesa di Santa Veneranda, un padre e il figlio adolescente guardano il fuoco acceso sul sagrato. Le scintille, sciami crepitanti, piovono sui due "come una bufera di neve" . È un fuoco che sembra animare i ricordi più insidiosi e "appiccicarli in un lampobaleno per sempre". La gente arriva per la messa; arrivano la mamma, la nonna e la sorellina Simona. Gli amici bevono birra con il padre e anche Marco beve per la prima volta e già è invaso dai pensieri. Inattesa si presenta l'immagine di Elisa, la sorella maggiore, studentessa universitaria a Cosenza, "felice all'inizio, poi sempre più inquieta". Basta chiudere gli occhi: e per il ragazzo si apre il mondo domestico delle memorie: la madre intenta a preparare cibi e ad attendere il ritorno per il Natale del marito emigrato in Francia; la nonna esile e delicata; la cagnetta Spertina in corsa per i vicoli. E l'odore di zagare nel vento dell'aprile. Rimodulando in una prosa ancor più pervasa di risonanze e pigmenti realistici, atmosfere struggenti e particolari incisi nel marmo, il suo mondo contadino di Hora, incendiato dalle "fiamme" dei giorni della Moto di Scanderberg (1991), Carmine Abate popola il nuovo "La festa del ritorno" di uno stupore di ritrovata luce immaginosa che fa pensare, a prima vista, a personaggi e luoghi suscitati principalmente da una scelta stilistica. Ma la tecnica di ripresa delle figure e la pittura d'ambienti immerge le immagini in un contesto talmente rilevato, spoglio di compiacimenti letterari ed essenziale nel suo nudo disegno, da conferire a ogni voce, gesto, fisionomia e baluginio di natura un certificato di totale appartenenza a una situazione storico-sociale ben calibrata e osservato dallo sguardo morale e civile, oltre che poetico, dell'autore. Esiste qualche differenza tra ciò che accade nel tempo fermo di quella remota terra del Sud, da cui tanti uomini sono costretti ad allontanarsi in cerca di fortuna, e ciò che accade nella pagina narrativa, dove una persona vera può essere "un sogno o un abbaglio" e un affetto è subito il "sottofondo musicale degli uccelli". Di questa distanza si incarica il libro di Abate che filtra i fatti attraverso due modi dissimili di porsi di fronte: la cronaca radente che registra ma come di soppiatto, quasi sfiorando le cose. E quell'accarezzare le cose come per illuminare un punto più lontano e lì far convergere la tensione del quadro, trasformando la stabilità in un'elastica oscillazione tra il certo e l'ignoto. Ogni elemento si presta così ad accogliere un segreto, anche a interrogarlo, pedinarlo. E intanto due voci tessono il racconto: quella di Marco, che riprende la sua infanzia in un paesaggio frusciante di incantamenti, di scoperte, le quali non leniscono tuttavia la nostalgia del genitore assente, le scandite partenze di lui per il lavoro, i rientri capaci di portare un'infinita gioia ma di breve durata. E quella del padre che, "sentimentoso", comincia a narrare il suo lavoro in miniera al Nord e la vita nelle baracche. A intermittenza si snodano episodi visitati dal dolore: l'incontro, in una Parigi aggrovigliata, con Morena, una bella italiana che muore presto lasciandogli la piccola Elisa, e poi il ritorno in Calabria, il nuovo matrimonio, la nascita degli altri due figlioli. E ancora in Francia a costruire chilometri di asfalto che "a srotolarli in direzione Sud" avrebbero potuto raggiungere il paese. L'incrocio delle cronologie, il variare degli sfondi, la miscela della lingua: il romanzo non scende a compromessi con soluzioni accomodanti; passa in rassegna senza indulgenze la formazione di Marco isolando casi importanti e percezioni infinitesimali, dalla grave malattia alla guarigione, dal sopravvenire di un senso di "rabbia" a comportamenti istintivi e alla solitudine. Nel frattempo, accompagnata da segni negativi trascorre l'esistenza di Elisa, sorpresa in inquietanti risvolti, dalla tormentata relazione con un uomo maturo, e dagli occhi celesti, all'inatteso finale, si diffonde una storia "troppo complicata", che però sfuma come in un'aria rarefatta. La residua tensione si disperde nel circuito dell'intera vicenda della famiglia, tra sortilegio e denuncia, tristezza e prudente sorriso, i "pesi segreti" che opprimono e parole "amare come foglie di oleandro". Su tutti, anche se avvicinato e allontanato con rapidità, domina il padre, "maestoso, un grande attore al centro del palcoscenico", mentre a ondate il quotidiano rassicurante, bianco, domestico si rovescia nella follia, nella tenebra, ma in fondo salva il piccolo Marco facendogli attraversare l'adolescenza, fino all'appuntamento fatale con lo spettro di una partenza che sembra in attesa e fino all'immagine del padre "intrappolato in un sogno lontano". Sensibile a non farsi sfuggire le "lingue d'ombra dei ricordi", l'autore agglomera un paesaggio calabro infuocato e lampeggiante o inghiottito in un segreto tormento: l'afa attende sullo sfondo asfaltato "come un bandito in agguato"; il vento è gonfio di "vampe di fuoco"; il fuoco di Natale è "misterioso con il suo alone da grande cometa" le pietre piatte della spiaggia, scagliate sul mare, cominciano ad annegare "con un lamento secco"; la campagna innevata è simile a una nuvola immensa; gli alberi paiono di "zucchero filato". E non basta una valigia buttata tra le fiamme per cancellare un'implacabile condanna all'esilio.