"La festa del ritorno" di Carmine Abate
Una bella storia, un vero narratore, un ritmo perfetto,forse troppo
di Alfonso Berardinelli
Può succedere di dover constatare (a me succede spesso) che i libri
migliori non somigliano al tipo di letteratura che ci saremmo augurati e che
ci piacerebbe leggere. Gli scrittori non ubbidiscono ai piani e ai desideri
dei critici. Aggredire o ignorare un autore, negare che valga qualcosa
soltanto perché la nostra strategia prevedeva altro, e dare la precedenza
all'ideologia o al pregiudizio, ignorando ciò che avviene.
Io per esempio non immaginavo che si potessero scrivere con abilità e
convinzione storie tradizionali come "La festa del ritorno" di Carmine Abate
“Mondadori, pp. 161, euro 7,80). Ma devo riconoscere che questo racconto
luogo, o microromanzo di formazione, è particolarmente riuscito.
Abate sa raccontare, è un autentico narratore. All'inizio, quando ho capito
che avrei avuto a che fare con un universo contadino scomparso mi sono un
po' scoraggiato: temevo la maniera, il folclore, il poeticismo della
genuinità premoderna. Ogni resistenza
è però venuta menò dopo qualche pagina. Il linguaggio di Abate non ha niente
di artificioso, è privo di compiacimenti e risponde perfettamente alle
necessità della narrazione. La lingua usata (un italiano mescolato di
dialetto calabrese e di "arbereshe", la lingua delle comunità albanese) fa
parte del mondo narrato e quel mondo poteva essere raccontato soltanto in
quella lingua.
E' vero che Carmine Abate può essere definito un narratore-poeta: ma non nel
senso che elude le necessità del racconto per "esprimersi" o per concedersi
digressioni liriche. Quanto c'e di poetico nel racconto deriva da due
semplici scelte, discutibili ma funzionali e precise. Abate sceglie come
narratore-protagonista un bambino dai sei agli undici anni e gli fa
raccontare il suo rapporto con il padre, un emigrato che lavora da anni nel
nord della Francia e che ritorna in famiglia solo per le vacanze invernali.
Inoltre, fisicamente e simbolicamente, dalla prima all'ultima pagina, la
narrazione prende corpo intorno ai fuochi che si accendono in piazza la
notte di Natale, davanti alla chiesa del paese. Sembra che tutto nasca da
quel fuoco crepitante e dallo sciame di scintille sollevate dal vento
notturno. In quella notte l'anno sta per finire e la vita può ricominciare.
E' esattamente lì che vengono rivelati i segreti e le paure, che si prendono
le decisioni, che si rievoca il passato e si guarda al futuro. Padre e
figlio intorno a quel falò invernale condividono la stessa esperienza e si
scambiano le emozioni più forti.
A Carmine Abate piace raccontare e ascoltare storie come a un bambino che
resta in paese pensando a suo padre lontano o come a un padre che ha bisogno
di suo figlio per trasmettere la sua esperienza e per confessarsi. Da uomo
adulto a uomo-bambino avviene il passaggio di conoscenza e di
responsabilità. Ci sono zone nella narrativa italiana attuale che su questo
antico problema non sorvolano affatto. Il rapporto padre-figlio riemerge
inaspettatamente negli autori più diversi: nel "Duca di Mantova" di Cordelli,
per esempio, o in "Tuo figlio" di Villalta.
In questo libro di Abate però tutto avviene come in una favola iniziatica o
in una parabola delle origini. Il migliore amico del protagonista è un cane,
padre e figlio vanno a caccia insieme, ci sono alberi e fiori, uccelli,
lepri e cinghiali, in campagna o al mare si possono incontrare misteriosi
viandanti, i ragazzi giocano nei vicoli o vanno a tuffarsi in uno stagno
fangoso.
Abate è in possesso di una spiccata abilità naturale nell'impadronirsi
dell'attenzione del lettore. Il ritmo è perfetto, la voce narrante del
bambino è credibile e rende interessante tutto ciò che fa, vede, pensa ed
annusa: "ero seduto sul muretto del vicolo di casa e annusavo il vento che
scappava inseguito dal mio cane" (pag. 15). Più avanti: "Entrai in casa. La
porta era aperta come sempre e il profumo di zagara aveva inondato
l'ingresso". Oppure: "Il giorno della Pasquetta andammo in campagna e
portammo due grandi ceste stracolme di kecupe e di pane, salcicce,
soppressate, lasagne al forno, frittata, prosciutto, sardella, olive nere e
verdi, bottiglie di vino e aranciata" (pag. 23). O ancora: "La mattina
ripetevo il mio rito scaramantico: mi svegliavo prima di tutti, andavo al
lettone e controllavo che mio padre fosse ancora lì; a volte gli sfioravo i
capelli con le dita, gli carezzavo la spalla. Mentre lui continuava a
dormire, la faccia affondata tra i seni della mamma" (pag. 25).
Il mondo raccontato da Abate è profondamente connesso, dense e gremito di
presenze fisiche. Ma questa compattezza è più poetica che realistica: o
meglio si tratta di un realismo che precede il disincanto. Il punto di vista
del narratore-bambino e la sua lingua veloce e vivace fanno sentire che
Abate appartiene a una narrativa su cui si stende ancora l'ombra lunga di
Verga o di Corrado Alvaro e che arriva fino ai racconti giovanili di Italo
Calvino: discorso indiretto libero, paratassi, fisicitità un po' fiabesca,
avventure nel paesaggio, uomini rudi e donne passionali, il dramma
dell'emigrato, le feste di paese, i vincoli sessuali e famigliari misteriosi
e potenti.
Il paradiso perduto delle origini
L'autore stesso ha vissuto di persona una vita da emigrato e, come si sa,
nell'emigrato si sviluppa di solito il desiderio che nel suo ambiente di
provenienza tutto resti inalterato per sempre. E' come se Abate avesse
scritto questo libro per rispondere al bisogno di toccare, saggiare,
frequentare ancora una volta, in una specie di ritualità rigenerante, il
paradiso perduto delle origini, il luogo nel quale ogni felicità e ogni
angoscia era carica di significato e di rivelazioni.
Il limite maggiore del libro è nella sua perfezione. L'ambiente sociale non
è abbastanza caratterizzato, viene dato per noto. Il che vuol dire che lo
scrittore rimanda implicitamente il lettore a una conoscenza convenzionale.
Ma se la vita di un paese è la stessa sempre e dovunque e non vale la pena
di parlarne, allora anche la storia raccontata emerge da uno sfondo
indistinto, immobile, e finisce a sua volta per risentire di una certa
convenzionalità, sia pure la convenzionalità delle cose semplici e grandi
che si ripetono con poche variazioni nell'esperienza di tutti all'inizio
della vita.
Questa chiusura rispetto all'ambiente, che è nello stesso tempo drammatica e
armonica, e che sembrerebbe rispecchiare soltanto l'ottica ancora infantile
del protagonista, tutto concentrato sul padre che appare e scompare,
trasforma la famiglia in un microcosmo impenetrabile. I conflitti
famigliari, con tutte le loro gradazioni, vengono visti solo dall'interno e
possono trovare soluzioni soltanto endogene. Non compaiono personaggi che
non facciano parte della famiglia. Intorno all'asse figlio-padre ruotano tre
donne: madre, nonna, sorella. Naturalmente l'elemento più dinamico del
gruppo è questa ragazza, la ventenne Elisa, studentessa universitaria. Il
solo personaggio estraneo è un tipo misterioso e ambivalente, un uomo già
maturo e stranamente giovane, che diventerà l'amante segreto della ragazza e
che alla fine si rivelerà la figura più inquietante e minacciosa della
storia.
Ma l'armonia e la sicurezza verranno ristabilite dal giovane protagonista.
Difendendo sua sorella con il fucile di suo padre, Marco esce dall'infanzia
e fa ingresso nell'età responsabile. Il finale offre al lettore parecchie
soddisfazioni, ma nella forma dell’ “happy end”. La ragazza evade finalmente
dal paese e trascorre un periodo felice a Parigi. Il padre, l'emigrato
inquieto, sempre troppo lontano dai suoi famigliari, butta la valigia nel
fuoco e annuncia solennemente, in pubblico, che non partirà più: la festa
del ritorno continuerà per sempre.
Troppo bello per essere vero? 0 no? Gli italiani e gli italo-albanesi forse
non emigrano
più. Anche Carmine Abate (apprendo dal risvolto di copertina) dopo essere
emigrato in Germania è ritornato in Italia e vive in Trentino, dove insegna.
Eppure mai come oggi l'umanità emigra, quasi sempre senza ritorno, da
innumerevoli paesi verso innumerevoli altri.