Il Corriere del Trentino 12.6.2004 Koinè affettiva tra padre e figlio di Lorenzo Tomasin Il ricordo della sensazione indicibile di gioia che un
bambino prova al ritorno a casa del genitore è spesso offuscato nella memoria di
molti adulti. Non può esserlo se il ritorno del padre è un evento che si
festeggia due volte all’anno; né può esserlo se il padre è un emigrante, che un
misto tra il bisogno materiale e l’atavica coazione migratoria spingono ogni
anno a lasciare la propria casa nell’Italia meridionale e a raggiungere la
lontanissima Francia, anzi la «Fròncia» dei minatori, dei sollevatori di blocchi
di cemento, degli operai italiani, maroccani, algerini. La festa del ritorno,
scatenarsi della gioia di chi è rimasto ad aspettare e di chi raggiunge di nuovo
la propria casa e i propri affetti, è il filo conduttore (nonché il titolo)
dell’ultimo romanzo di Carmine Abate, meritoriamente incluso, qualche giorno fa,
nella cinquina del premio Campiello. Una storia ben rappresentativa dei temi e
dello stile propri del narratore e poeta nativo di Carfizzi, in Calabria, ma da
un decennio stabilitosi a Besenello, in provincia di Trento. Storia di
emigrazione, nella quale inevitabilmente si riversano motivi autobiografici di
una vita, quella di Abate, divisa tra patrie diverse. E storia arbëreshe:
albanese, cioè, come la comunità calabro-illirica in cui Abate è nato, e nella
quale resiste ancor oggi una delle più tenaci isole linguistiche e culturali del
nostro Paese. Arbëreshe, albanese è l’atmosfera che Abate crea con l’aiuto del
suo peritissimo stile; orgogliosamente albanese, e al tempo stesso profondamente
italiana, la vicenda umana di Marco, il bambino-ragazzino (lo seguiamo dagli
otto ai dodici anni, circa, lungo i venticinque brevi capitoli del romanzo) che
costruisce col padre emigrato un rapporto intermittente ma saldissimo, reso per
paradosso più forte proprio dalla continua e forzata assenza del genitore. La
scoperta della vita – di quella presente e di quella passata, delle radici
familiari – avviene in Marco all’ombra di questo padre, ed è ben sostanziata
dalla riflessione sul tema dell’essere straniero, che è l’autentico nòcciolo del
romanzo, se è vero che in esso si fonde il vissuto dei personaggi e la sapiente
partitura linguistica e stilistica composta da Abate. Semplificando al massimo:
vi è una costruzione che, organizzata su una lingua “a tre piani”, scandisce un
senso di triplice estraneità e al tempo stesso di triplice appartenenza.
L’italiano, fortemente colloquiale ma tutt’altro che impoverito, che fa da base
e da collante insieme per il disegno complessivo; il dialetto, koiné meridionale
estrema che trapunge di continuo i dialoghi debordando ampiamente e
infiltrandosi, pur senza esibizioni o burbanze espressivistiche, in tutto il
filo della narrazione; e l’albanese, chiazza vistosa per la sua decisa
incompatibilità, ma fino a un certo punto, se di questa lingua l’autore si
sforza di suggerire una comprensibilità generica ma immediata anche da parte del
suo lettore italiano, e se anche tra queste parole magicamente oscure spuntano
termini di subita e talvolta universale comprensibilità (basti qui riportare
l’ammiccante dedica del volume: «Mames e papaut, naturalmente, a mia madre e a
mio padre»). |