Corriere della Sera 9.5.2004

Ritorno a Hora, dove tutto inizia
di Ermanno Paccagnini

C'è molta poesia nella Festa del ritorno di Abate. Una poesia che nasce a contatto della dura realtà d'una terra povera che, quasi "pistola puntata alla tempia", costringe all'emigrazione. E che il romanzo declina su più livelli: l'infanzia del protagonista Marco; le drammatiche esperienze affettive della sorella Elisa; le prime gelosie della sorellina; i silenzi della madre Francesca, che però tutto sa e vede; le lacerazioni interiori d'un padre, diviso tra voglia di restare e necessità di partire. E, ancora, le due terre: la Hora della partenza, il paese di fantasia in cui Abate riassume tutto il suo universo culturale arberesh, degli albanesi d'Italia; e la Francia del lavoro per poter far studiare i figli. Livelli intersecantisi strettamente e continuamente, avendo a collante le parole del titolo: "festa", a suggerire il tono poematico; e "ritorno". Perché questo, che è romanzo di formazioni, può esserlo proprio perché è soprattutto un romanzo di ritorni. Quello del padre. Quelli di Elisa: dall'università di Cosenza; dall'infatuazione d'amore; dalle sue erronee convinzioni di essere una incompresa in famiglia e culminante nel suo tornare nella Parigi del primo matrimonio del padre e della sua nascita. Quelli del protagonista Marco: dall'ospedale di Napoli, ove lo strappano alla morte; ma soprattutto il suo ritorno memoriale all'infanzia, a ripercorrere una fiaba dai risvolti ora dolorosi (le partenze del padre; le traversie di Elisa), ora tenerissimi (la sorellina; il cane Spertina), ove anche il male (l'amante di Elisa) assume i connotati del bello e malvagio delle favole. Romanzo di formazioni, dunque. Di Marco ed Elisa. Per certi aspetti pure del padre. Ma anche atto d'amore alla propria terra, ricca dell'alone maestoso e incantato d'un paesaggio a sua volta in pericolo, e alla propria cultura ar beresh , scandite nella scelta d'uno screziato plurilinguismo tra italiano, parlato italianizzato e arbere sh , dato spesso con traduzione, qualche rara volta senza. Né importa, perché di tale mondo ciò che conta è la suggestiva musicalità, che il lettore di Abate già conosce dal felicissimo Ballo tondo dell'esordio (1991). Una musicalità anche di struttura, affidata a un mobilissimo colloquio narrativo padre-figlio, ben orchestrato per andirivieni temporali tra l'oggi della narrazione, l'ieri dell'infanzia e l'altrieri d'un Marco non ancora nato. E per continui e musicali passaggi di consegna memoriale: tra il figlio narrante che pesca nei propri ricordi personali; il padre memorante, ma che lascia alla parola del figlio il racconto; e il padre stesso cui il figlio cede la parola in prima persona. Per un racconto mosso, commosso e sempre vivo.